di Maria Papotto, Patrizia Penna e Raffaella Pessina
“Ci sono migliaia di autonomi che stanno morendo economicamente e purtroppo in alcuni casi anche fisicamente, dipendenti privati che se va bene percepiscono una cassa integrazione tardiva e misera ed i sindacati si permettono adesso addirittura di incitare i dipendenti pubblici allo sciopero. Una vera follia che deve finire”. Lo ha detto Erica Mazzetti, deputata di Forza Italia, commentando lo sciopero degli statali dello scorso 9 dicembre. Nonostante i sindacati abbiano parlato di una “protesta giusta”, lo sciopero ha fatto molto discutere e non a pochi è sembrato uno schiaffo ai tanti cittadini che tirano a campare tra tante, troppe incertezze.
E in effetti la pandemia ha posto le imprese italiane di fronte ad una crisi economica senza precedenti ed ha anche fatto emergere, in maniera ancor più evidente, la distanza siderale tra pubblico e privato in termini di impatto economico della crisi sui lavoratori e sulle relative tutele.
Anche la gestione delle risorse umane all’interno delle stesse aziende è divenuta, ahinoi, emergenziale e la scelta “obbligata”, laddove attuabile, è stata quella dello smart working, seppure tra lo scetticismo di qualche datore di lavoro.
Altra scelta inevitabile è stata quella dell’attivazione di ammortizzatori sociali, ovvero strumenti a sostegno dei lavoratori dipendenti, ideati dal nostro Legislatore per supportare le realtà imprenditoriali durante crisi aziendali ed altre situazioni “straordinarie”. La finalità degli ammortizzatori sociali sta nel corrispondere un’integrazione salariale in sostituzione dell’ordinario stipendio durante i periodo in cui il lavoratore viene posto in cassa integrazione e dunque non percepirà lo stipendio ordinario ma l’integrazione salariale a seguito dell’attivazione degli ammortizzatori sociali. La normativa che disciplina gli ammortizzatori sociali è il D.Lgs. 151/2018, i provvedimenti normativi adottati per contrastare l’attuale situazione di crisi economica, hanno cercato di modellare gli ammortizzatori sociali cercando di rendere le procedura e modalità di attuazione più in linea alle attuali esigenze delle imprese.
I lavoratori del settore pubblico non hanno conosciuto né crisi né penalizzazioni di sorta sotto questo profilo.
Se da un lato, infatti, lo strumento della cassa integrazione ha agevolato le imprese nel sostenerle da un punto di vista economico, dall’altro li ha accoltellati da un punto di vista di tutela degli equilibri organizzativi. E mentre, “il treno” delle imprese private corre con i propri mezzi destreggiandosi tra sussidi di integrazione salariale e politiche aziendali per sostenere la propria struttura, accanto c’è “l’altro treno”, quello del settore pubblico che segue la sua strada, che non conosce cassa integrazione e per le quali le recenti normative hanno disposto lo smart working fino al 50%.
Secondo un’indagine condotta qualche mese fa da Promo Pa Fondazione, i lavoratori pubblici in smart working avrebbero subito una contrazione della produttività pari al 30% a causa dei problemi legati alla sicurezza informatica dovuti all’utilizzo di pc personali e ai problemi di connessione internet. Immaginate quale sarebbe il destino di un’impresa che riduca così drasticamente la sua produttività. Non riuscirebbe a sopravvivere sul mercato.
Se da una parte si cerca di tutelare un diritto costituzionale del diritto alla retribuzione economica in favore dei lavoratori, dall’altra parte si è perso di vista che i datori di lavori con la loro struttura economica si sono ritrovati a non poter ancora una volta lasciare da soli i lavoratori, in quanto il sussidio previsto dal nostro ordinamento, ha causato non solo una perdita economica dei lavoratori ma soprattutto una perdita di competitività delle imprese italiane, le quali si sono indebolite gravemente in termini di struttura organizzative.
Una categoria, dunque, quella dei lavoratori pubblici, che di fatto non ha patito le stesse incertezze del mondo imprenditoriale. Eppure, forse in pochi lo sanno, anche per loro esiste la cassa integrazione. Quanto meno sulla carta. Si tratta degli artt. 33 e 34 del Testo Unico del Pubblico impiego che disciplinano la gestione delle eccedenze di personale nell pubbliche amministrazioni.
L’art. 33, più nello specifico, contempla il ricorso a forme flessibili di gestione del tempi di lavoro o a contratti di solidarietà. “I contratti collettivi nazionali – recita il comma 6 – possono stabilire criteri generali e procedure per consentire, tenuto conto delle caratteristiche del comparto, la gestione di eccedenze di personale attraverso il passaggio diretto ad altre amministrazioni al di fuori del territorio regionale”.
Il personale che non sia possibile impiegare diversamente nell’ambito della medesima amministrazione e che non possa essere ricollocato presso altre amministrazioni nell’ambito regionale, può essere collocato in disponibilità, spiega il comma 7. Come? Con una indennità pari all’80% dello stipendio e dell’indennità integrativa speciale, con esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo comunque denominato, per la durata massima di 24 mesi.
Gli artt. 33 e 34, ci spiega nell’intervista rilasciata al Qds, Gaetano Agliozzo, segretario regionale della Funzione pubblica della Cgil Sicilia, sono rimasti inapplicati perché “sono pochissime le situazioni di sovrannumero” di personale. Il fatto che le amministrazioni pubbliche siano riuscite quasi sempre “a cadere in piedi” e a sanare in qualche maniera le situazioni di sovrannumero di personale, non rende meno importante o comunque meno “forte” la percezione che si ha di pubblico e privato, due universi paralleli, due mondi distanti anni luce: il primo lontano da quella disperata lotta alla sopravvivenza che il secondo sta vivendo sulla propria pelle.
L’art. 33 del Testo Unico del Pubblico impiego disciplina le modalità di messa in mobilità di personale in sovrannumero ma non ci risulta sia mai stato applicato. È così?
“Premetto subito che l’articolo 33 del Testo Unico è stato assorbito dal decreto legislativo n.165/2001 che non solo ha regolato il Testo unico del pubblico impiego ma ha anche normato tutto quello che afferisce al ruolo pubblico. La norma è e resta certamente in vigore, ma non viene applicata proprio perché sono pochissime le situazioni. I casi sono limitati in tutta Italia e in Sicilia non ravvisiamo che ve ne siano stati. La mobilità potrebbe essere applicata anche dai Comuni, ma non quelli in dissesto. Qualora vi sia un sovrannumero del personale, le poche situazioni vengono sanate o con la mobilità o con il reimpiego in altre amministrazioni. Se entro due anni il personale non viene ricollocato, lo stesso va in mobilità con riduzione dello stipendio (in alcuni casi, ma è raro, viene previsto anche il licenziamento). Nell’Isola vi è una situazione variegata rispetto all’eccedenza del personale, che è stato ridimensionato e per questo abbiamo già indetto uno sciopero a livello nazionale per il prossimo 9 dicembre per rivendicare un piano assunzionale: abbiamo riscontrato una carenza di organico di quasi 500 mila addetti, i concorsi vengono fatti al lumicino, c’è una situazione drammatica e spesso si opera con carichi di lavoro non indifferenti”.
Lei ritiene esista una disparità tra lavoratori del pubblico e del privato in termini di maggiori tutele per i primi?
“Sono due discipline diverse e non si possono fare paragoni, però i contratti che abbiamo sottoscritto nel privato hanno tutte quelle forme di tutela che prevedono anche il mantenimento del posto di lavoro. Vi sono molte sentenze di licenziamento per le quali siamo riusciti ad ottenere il reintegro per personale licenziato senza giusta causa. La legge n.165 prevede il licenziamento anche per il dipendente pubblico qualora vi siano situazioni che arrecano danno alla pubblica amministrazione, le norme ci sono, sono stati licenziati tantissimi dipendenti nel settore pubblico, c’è un codice disciplinare previsto per i contratti. Per il privato ci sono delle forme di tutela con clausole di salvaguardia inserite nei contratti. Ad esempio, nel caso di riduzione del personale, si devono trovare delle soluzioni condivise con i sindacati e gli uffici territoriali del governo per mantenere o cambiare la qualifica per riposizionare in altre funzioni il personale. Le forme di tutela nel privato quindi ci sono”.
Tantissimi i lavoratori del privato che hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza della Cig. Nel pubblico si è sentito parlare addirittura di lavoratori “esentati” , dunque dispensati dal lavoro ma con lo stipendio. Cosa ne pensa?
“I dipendenti pubblici a differenza dei privati non hanno cassa integrazione perché nel pubblico si entra per concorso ed è un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Per questo tipo di personale non è prevista una tale esenzione, questa è certamente una bufala. L’art. 86 dell’ultimo dl che è stato emanato dalla Presidenza del Consiglio ha previsto di esentare i lavoratori che hanno particolari patologie, ma facendoli lavorare da casa. Anche perché gli uffici non erano attrezzati per la crisi pandemica. Essere esentati senza lavorare, percependo lo stesso uno stipendio non è ammissibile. Chi sta in ufficio è perché deve svolgere servizi indifferibili, chi sta a casa è stato regolarmente autorizzato a lavorare in modalità da remoto. Spesso con molte difficoltà perché l’amministrazione non è stata in grado di fornire i supporti informatici e i dipendenti si sono dovuti attrezzare con i propri mezzi”.
C’è una disparità anche sul fronte smart working con percentuali nettamente superiori di lavoratori agili nel pubblico rispetto al privato?
“Mentre nel pubblico la ministra della Funzione Pubblica Fabiana Dadone ha provveduto ad una regolamentazione anche attraverso l’articolo 263 del Decreto Rilancio per il privato è stata fatta solo una raccomandazione nel Dpcm. Nel pubblico più del 50% dei lavoratori è stato mandato in smart working, mentre non si conosce la percentuale del personale che lavora da casa perché non c’è un obbligo”.