ROMA – Un sistema di Intelligenza artificiale capace di suggerire con alta precisione la presenza di nuovi siti archeologici nella pianura alluvionale della Mesopotamia meridionale, utilizzata come caso di studio. È il modello nato da una collaborazione tra informatici e archeologi dell’Università di Bologna.
Presentato in Open Access sulla rivista “Scientific Reports” del gruppo Nature, il sistema – informa l’Ateneo – è stato messo a punto a partire dall’esame automatico di foto satellitari della pianura mesopotamica: i risultati mostrano che è in grado di fare previsioni corrette sulla presenza di potenziali siti di interesse archeologico con un’accuratezza dell’80%.
“Oggi il dibattito sull’Ia si concentra spesso sul rischio che queste tecnologie possano sostituire l’uomo anche in professioni che richiedono un alto contenuto di competenze specifiche, ma questo studio ha dimostrato che esiste un’altra prospettiva con cui guardare al problema”, dice Marco Roccetti, professore al Dipartimento di Informatica – Scienza e Ingegneria dell’Università di Bologna che ha coordinato la ricerca insieme all’archeologo Nicolò Marchetti.
“In ambito archeologico, infatti, non solo oggi questo rischio non si pone, ma anzi il raggiungimento di alti livelli di accuratezza nell’individuazione automatica di siti archeologici è possibile solo se si instaura un meccanismo di collaborazione tra algoritmi di Ia ed expertise umana”.
Questo perché il problema di partenza – riconoscere potenziali siti di interesse archeologico a partire dall’analisi di foto satellitari – è estremamente complicato. Si tratta di un compito molto diverso e più complesso rispetto ad esempio al riconoscimento automatico dei volti. In quel caso, pur nelle infinite sfumature della morfologia di un viso umano, un algoritmo di apprendimento automatico può essere addestrato con ottimi risultati.
Nel caso degli insediamenti archeologici, invece, ci si ritrova davanti a geometrie che possono variare molto a seconda dei diversi contesti, e questo rende molto difficile il loro riconoscimento con un sistema di analisi artificiale. Neanche meccanismi sofisticati come la segmentazione (semplificare l’immagine dividendola in più parti), il transfer learning (sfruttare modelli pre-addestrati per risolvere nuovi problemi) e la self attention (individuare le relazioni tra elementi diversi a partire da ampi database) riescono a ottenere, da soli, risultati soddisfacenti.
Un ulteriore problema è poi quello della quantità di materiale a disposizione. Un archivio di qualche migliaio di foto satellitari che riportano siti archeologici noti può essere considerato dagli studiosi un patrimonio abbondante di fonti. Ma per dare vita a un sistema automatico che con grande precisione riconosca nuovi punti promettenti in cui scavare, qualche migliaio di foto sono decisamente troppo poche.
Per superare questi ostacoli, gli studiosi dell’Università di Bologna hanno quindi sviluppato una procedura collaborativa che connette il lavoro dell’intelligenza artificiale con quello degli archeologi. Il punto di partenza è stato un webGIS dove – grazie ai progetti di ricerca Eduu prima e Kalam adesso – erano stati raccolti e georiferiti i dati di 16 precedenti ricognizioni archeologiche di superficie con quasi 5.000 siti tracciati e verificati.
Il sistema prevede che le indicazioni prodotte dal modello di Ia analizzando le foto satellitari vengono corrette e annotate da studiosi esperti (in questo caso la dottoranda Valentina Orrù) e sottoposte nuovamente all’intelligenza artificiale, in un processo di apprendimento progressivo, che è stato supervisionato dal giovane ricercatore Luca Casini. In questo modo è stato possibile raggiungere livelli di accuratezza vicini all’80% nell’individuazione di potenziali siti archeologici nascosti.
“La metodologia che abbiamo messo a punto segue dunque uno schema che nella letteratura è noto come human-in-the-loop method, ma che in realtà raramente trova applicazione in casi significativi, e sicuramente non era mai stato utilizzato nel campo dell’archeologia”, spiega Roccetti. “I numerosi esperimenti che abbiamo realizzato hanno dimostrato che il sistema nel suo complesso può senza dubbio velocizzare la fase esplorativa del terreno: un processo che oggi è condotto dagli archeologi in modo interamente manuale, con grande dispendio di tempo ed energie”.
È da sottolineare, inoltre, che questi promettenti risultati sono stati ottenuti utilizzando modelli e software open source, e attraverso dati e informazioni disponibili liberamente (dalle immagini Corona degli anni Sessanta fino a Bing Maps): si tratta quindi di un modello adattabile e replicabile per altri contesti di ricerca archeologica.