Cultura

“Io non ci sto”, la sfida di Natale Giunta alla mafia in un libro

“Il concetto di paura si è trasformato nella sfida di dovercela fare, perché penso di meritarmi una vita serena”: è sempre stata la determinazione, fin da quando ancora ragazzino sognava di diventare un cuoco, a guidare come un faro Natale Giunta, chef e imprenditore siciliano di fama internazionale, che per anni ha lottato contro la mafia e che ora ha deciso di raccontare la sua storia nel libro “Io non ci sto”, scritto con la giornalista Angelica Amodei e pubblicato da Rai Libri.

Nel libro Giunta, che dal 2005 ha iniziato a collaborare con la Rai come ospite fisso de “La Prova del Cuoco”, racconta con franchezza di aver vissuto due vite: la prima, fino ai 30 anni, in cui ha speso ogni energia per realizzare i suoi sogni e fare della passione per la cucina il suo lavoro; la seconda, fino ai 40, segnata dalla volontà di non abbassare la testa di fronte alle intimidazioni mafiose denunciando tutto alle forze dell’ordine, ma anche dalla paura di non riuscire a fronteggiare i tanti problemi scaturiti dalla scelta di non pagare il pizzo.

Poi il Covid, che come ristoratore lo ha colpito molto, al quale ha reagito inventando da un giorno all’altro un efficacissimo sistema di delivery per portare ovunque i suoi piatti e contrastare così la crisi economica. “La mia è stata una vita bellissima per tanti anni”, dice presentando il libro, “tutto è iniziato dalla gestione di un ristorante nel mio paese, a Termini Imerese. Non avevo soldi, mi sono indebitato, è stata una follia, ma con il lavoro piano piano ce l’ho fatta”.

La mafia è arrivata a bussare alla sua porta nel 2012, nel momento di massima espansione della sua attività, quando accanto al lavoro di chef ha affiancato quello di imprenditore, con tanti eventi da organizzare e investimenti da programmare.

Quando la mafia lo ha minacciato imponendogli di pagare il pizzo, Giunta ha dovuto scegliere in fretta: “avevo tre strade davanti a me: potevo vendere tutto e andare via, cercarmi un amico che mi aiutasse a interagire con la mafia oppure restare e denunciare”, dice, “mi sono detto: resto qui. Per me queste parole sono diventate un simbolo di battaglia. C’è gente che restando in Sicilia è morta o ha perso tutto.

Questa terra deve cambiare ed è cambiata e sta cambiando grazie alla testa dura di persone come me. Alcuni dopo quello che è successo mi considerano uno sbirro, ma intanto chi mi ha chiesto il pizzo è andato in galera e lo Stato ha scoperto grazie alla mia vicenda 12 milioni di patrimoni sommersi. Rifarei tutto”.

La lotta contro la criminalità è stata dura: la protezione della scorta, la paura di ritorsioni per sé e la propria famiglia e poi il rischio che ogni attività si fermasse, dopo che, con gli arresti dei mafiosi, la sua storia è venuta alla luce. “

Ho avuto per 8 anni la scorta, mi ha protetto ma non ero libero di fare niente. Poi quando me l’hanno tolta, ho avuto di nuovo paura, ma poi ho reagito. Sono anche riuscito a tornare nei mercati a fare la spesa, in quei posti dove la mafia mi aveva impedito di andare: quando sono tornato lì, i lavoratori onesti che conoscevano la mia storia mi hanno mostrato il loro rispetto”, racconta, “dopo gli arresti è iniziato il periodo più difficile, perché tutto è stato reso noto. Da 100 dipendenti che avevo poi non ne ho avuto più nessuno. Ho perso 9 milioni di fatturato, per molti ero diventato lo sbirro, non facevo più eventi o matrimoni. Per 3 o 4 anni ho pensato solo a ricostruirmi una serenità”.

Poi però la sciagura del Covid ha rimescolato le carte un’altra volta, togliendo ogni certezza. E di nuovo Giunta, di fronte al rischio di perdere tutto, si è rimboccato le maniche, mettendosi a confezionare lui stesso le pietanze che uscivano dalla sua cucina e organizzando un capillare sistema di consegna a domicilio per portare i suoi piatti in tutto il mondo.

La lotta alla mafia l’ha aiutata anche con il Covid? “Sì, mi ha aiutato la mia esperienza, il combattere in prima linea, il non abbassare la testa e tornare a essere vincente.

A volte penso che se vado in guerra i proiettili mi sfiorano”, dice con una battuta, “in Sicilia per fare carriera la strada è in salita. E allora dopo i primi giorni di Covid, quando tutto era chiuso, ho pensato che dovevo inventarmi qualcosa. Il nostro settore è diventato il capro espiatorio in questa pandemia, in pochi riescono a mantenere le proprie attività, i ristori sono stati insufficienti: o ti inventi qualcosa o vai sotto le macerie”.

Il pizzo è una questione culturale? “Sì, senza dubbio. Alcuni non lo chiamano pizzo, lo vedono come una questione di rispetto del vicinato”, spiega, “oggi la mafia si modifica anche in base a quello che lo Stato fa per combatterla e magari può anche non importi il pizzo, però ti costringe a comprare la frutta, il pesce, i vini in determinati posti. Io consiglio sempre di denunciare, anche se il costo da pagare è alto, ma è l’unico modo per restare liberi”.