Il Grand Tour era un lungo viaggio che veniva condotto attraverso l’Europa continentale e che, sovente, veniva intrapreso a partire dal XVIII secolo, da giovani facoltosi appartenenti alla ricca aristocrazia europea e destinato a perfezionare il loro sapere. Concedendo dunque loro la possibilità di poter realizzare un patrimonio di esperienze atte a generare quell’agognato saper vivere, quale obiettivo necessario ed insostituibile per poter governare con dovizia ogni problematica corrente della loro epoca storica.
Tale esperienza aveva una durata non sempre definita e, di solito, trovava come destinazione l’Italia, ove la Sicilia appariva come una sorta di meta estrema, sia dal punto di vista geografico che esistenziale, un traguardo insostituibile, inesorabile e feroce per bellezza e sommatoria di sollecitazioni generate da una stratificazione culturale vastissima, dovuta alle numerose dominazioni avvicendatesi nei millenni. Nel 1700 vi fu dunque l’emersione di un incontenibile e rinnovato interesse per l’arte classica che pervase gli intellettuali europei, certamente alimentato dal fervore prodotto dal movimento illuministico, dall’enciclopedismo e da un nuovissimo interesse per i fenomeni scientifici. Tutto ciò non poteva che porre la Sicilia al centro dell’attenzione della vita culturale europea.
Tappa fondamentale diveniva allora la nostra isola, con i suoi vulcani ed i suoi tesori greci, con le rovine medievali e i numerosi castelli normanni, le sue meravigliose architetture barocche, di cui Friedrich Maximilian Hessemer ebbe a dire nelle sue Lettere dall’isola all’inizio dell’800: “la Sicilia è il puntino sulla i dell’Italia, […] il resto d’Italia mi par soltanto un gambo posto a sorreggere un simil fiore”.
La Sicilia infatti offriva la possibilità di poter studiare l’arte greca senza dover affrontare il gravoso viaggio in territorio ellenico, all’epoca dominio turco, con la moltitudine di rischi e proibizioni che tale amministrazione comportava. Conosciamo bene le frasi divenute icone inossidabili risonanti ed emittenti, generate da autori quali Alberti Leandro, Goethe, Houel, Schellinks, e via dicendo, giù giù, sino alla nostra contemporaneità, in un’azione esploratrice mai interrotta, mossa certamente da frequenze proprie del piacere, generate da uno scenario ambientale e culturale altrove non riscontrabile.
Questo articolo inaugura così una rubrica temporanea che, intende porre in visione i protagonisti illustri di un ininterrotto Grand Tour alla scoperta dell’immenso potenziale creativo emanato dalle frequenze vitali dello scenario ammaliante della nostra isola. Temporaneità, come ben avrete modo di poter capire, in ragione dell’avvicendarsi dei nostri ospiti alle nostre latitudini felici, quali sapienti divi dell’odierno circo mediatico che ruota attorno alla disciplina del design e dei suoi ormai numerosissimi ambiti applicativi.
Questa è stata la volta di Jurgen Bey, acclamato designer proveniente dai Paesi Bassi che nell’abituale rituale messo in atto dal Dipartimento del Design di Abadir nella città di Catania, da più di un decennio ci delizia con una moltitudine di episodi dialogici ove i giovani e vecchi designer hanno la possibilità di poter interagire in maniera diretta con qualificati professionisti della disciplina sapiente e solvente del Design.
Jurgen Bey ha inteso voler subito mettere in chiaro le sue traiettorie d’esercizio professionale, con somma naturalezza ed immensa calma ha delineato le ragioni del suo fare, mediante l’azione attiva di un design ‘disturbante’ che, intervenendo con la generazione di una sorta di ‘interferenza’ all’interno dei rigidi registri ove vengono ad esplicarsi le nostre esistenze, innesta un’azione perturbante, capace di poter investire di piacere e sacralità anche quella sommatoria di gravosi compiti cui siamo chiamati a doverci occupare, giorno per giorno. Ed accade allora che persino le operazioni di pulizia di uno spazio di vita all’interno dei nostri scenari domestici possa divenire azione carica di gradevolezza e, talvolta, persino di piacere. E tale azione egli ha inteso estenderla ad ogni scala possibile d’intervento, dallo scenario dedicato alle nostre attività lavorative, consentendoci l’esercizio di attività performative inedite e sorprendentemente personali, concedendoci la possibilità di poterle condure con ampi margini d’intimità persino in ambiti di condivisione forzata, con i suoi casiers di Lecorbusieriana memoria (…in realtà opera di Charlotte Perriand, responsabile del settore arredo dello studio di Rue de Sevres 35 a Parigi in quegli anni), delle postazioni mobili, delle scatole atte a contenere come in una scatola dell’anima tutte le nostre benefiche strumentazioni.
Scatole grandi e piccole, quali protagonisti assoluti di un ecosistema sempre mobile, quale migliore rappresentazione dei parametri propri della nostra contemporaneità, come quelli della temporaneità, della provvisorietà, della impermanenza. Scatole che nascono, mi dice Bey “dal desiderio di voler vincolare uno spazio senza voler fare dei muri, mediante un dispositivo che genera spazio, persino intimo, senza invece negarlo attraverso delle barriere”, sino alla grande scala urbana.
Concetti d’ingaggio con la nostra realtà che si mostrano con effetti di grande efficacia persino a grande scala, come il progetto Waterschool Landscape, che si muove lungo le traiettorie applicative proprie del Public Design, con l’intento di poter realizzare maggiore consapevolezza negli individui sull’uso delle risorse idriche, realizzando un network quanto più ampio possibile, quale garanzia di risultati di ampiezza e qualità considerevoli.
Dunque il designer, con il suo team, interviene mediante la messa in campo della possibilità di poter concedere alla utenza di un determinato contesto ambientale l’occasione di poter cambiare approccio in relazione alla problematica della risorsa idrica, in funzione dei numerosi parametri esistenti, dunque non solo ambientali, come spesso ci si dedica quasi esclusivamente.
“Per trattare tali temi”, mi dice “è importante il contesto culturale!”, apposta è importante realizzare quale prima tappa una sorta di “Paesaggio” quale rappresentazione immateriale, proprio della problematica che si intende affrontare, coinvolgendo utenti e scuole di ogni ordine e grado, preoccupandosi, attraverso l’azione di solvimento propria del design, di fare interagire nel miglior modo possibile tutti questi attori.
Un’azione, quella di Jurgen Bey, che non trascura di voler accogliere la questione poetica agganciata all’adozione degli elementi naturali, come la panca-tronco con innestate alcune spalliere recuperate da vecchie sedute, che erode i confini della progettualità, mettendo in campo la possibilità di poter dare forma ad un doppio sentimento, quello legato alla funzione d’uso e quello che si fa portatore di un esteso potenziale espressivo, proprio del mondo dell’Arte. Bon Voyage Jurgen!!!