La Corte salva il nuovo abuso d’ufficio

L’art.23, 1° comma, del decreto-legge n.76/2020 convertito nella legge n. 120/2020 sostituiva nell’art. 323 c. p. che punisce l’abuso d’ufficio, alla frase “violazione di norme di legge o di regolamento”, fattispecie integrativa del reato, quella di “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti con forza di legge e dalle quali non residuano spazi di discrezionalità”. Le nuove, più stringenti, condizioni introdotte dalla modifica riducevano così il perimetro di applicazione del reato.

Sono sollevate questioni di legittimità costituzionale della norma per contrasto con gli artt. 3, 97 e 77 Cost., decise con la sentenza n. 8 del 2022 (consultabile sul sito www.cortecostituzionale.it).

Una precisazione si impone. L’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della norma impugnata avrebbe fatto rivivere la norma precedentemente in vigore, di più vasta applicazione come si è visto, e quindi suscettibile di aggravare la situazione dell’imputato nel giudizio che è all’origine della questione di legittimità costituzionale. La sentenza sarebbe stata, come si dice tecnicamente, “in malam partem”, dannosa cioè per l’imputato e pertanto vietata alla Corte. Spetta infatti solo al legislatore definire, e per il futuro, gli elementi costitutivi delle fattispecie di reato e le relative pene (art. 25, 2° comma, Cost.). Eliminare la norma e quindi allargare di nuovo il perimetro del reato che il legislatore, nelle scelte di politica criminale che gli competono in via esclusiva, aveva ristretto, ne avrebbe leso le attribuzioni costituzionali. Attenzione però: la preclusione per la Corte opera a condizione che il legislatore abbia esercitato legittimamente il proprio potere, abbia cioè rispettato le norme “formali”, quelle che condizionano il procedimento legislativo. Andava quindi innanzitutto accertato se il Governo poteva ricorrere allo strumento del decreto-legge (art. 77 Cost.) per modificare il reato dell’abuso d’ufficio.

La norma denunciata si propone, insieme alle altre contenute nel decreto-legge n.76/2020 (decreto “semplificazioni”), di far ripartire il Paese dopo la stasi epidemica. Tra gli ostacoli ad una pronta ripartenza il legislatore ha individuato la formulazione dell’art. 323 c.p. (“la violazione di norme di legge o di regolamento”) come interpretata dalla Corte di cassazione. Quest’ultima aveva ricompreso nelle violazioni di legge anche il mancato rispetto del generalissimo principio del “buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione” di cui all’art. 97 Cost. Per effetto di tale interpretazione il campo di indagine penale sull’operato dei titolari di pubblici uffici si era esteso alle scelte discrezionali, generando in questi la “paura di firma” per il timore di incorrere in comportamenti sanzionabili penalmente, con conseguenti ritardi e depotenziamento dell’azione pubblica. Da qui la necessità di una definizione più puntuale del reato che rassicurasse in qualche modo i decisori pubblici e ne vincesse l’inerzia, ponendoli al riparo da indagini penali “a largo spettro”. L’attuale fase di stallo economico giustifica un intervento con decreto-legge e la questione di legittimità relativa all’art. 77 Cost. è perciò respinta.

Diversa la sorte riservata alle questioni relative alla violazione dell’art. 3 e dell’art. 97 Cost. Trattandosi di vizi “sostanziali”, la preclusione di una sentenza “in malam partem” ridiventa pienamente operante; pertanto la Corte non le affronta dichiarandole inammissibili.

Giovanni Cattarino
già Consigliere
della Corte costituzionale e Capo Ufficio Stampa