Entrando verso la seconda parte del Cinquecento lo sviluppo italiano, sia pure con importanti eccezioni sottolineate soprattutto da Braudel, rallenta perché tante cose rallentano e si interrompono nel nostro Paese. Ma prosegue, con assoluta continuità, nei Paesi del Nord e soprattutto in America.
Che cosa accomuna l’etica imprenditoriale di Franklin, Alberti, Cotrugli, Matteo Palmeri, Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Francesco Datini, Albertano da Brescia e tanti altri? La convinzione profonda che la mercatura è un’arte nobile, che il profitto è legittimo, che l’operosità è umanità. Ma tutto questo rimane tale solo se è esercitato in modo funzionale a una «vita buona», se al centro, come guida e misura, resta l’antico principio «Omnium rerum mensura homo». L’impresa è al servizio dell’uomo. Questa è la convinzione comune che anima e dà forza e guida a questi uomini, attraverso tanti secoli.
Anche questo antico borghese era un imprenditore capitalistico; il guadagno era il suo scopo; egli speculava e calcolava; e alla fine, anche le virtù borghesi (certo in misura diversa) si impadronirono di lui. Quel che gli dava però il suo volto particolare (quel volto che oggi ci è divenuto così estraneo) era, se vogliamo sintetizzare in una frase, tutto il «vecchio stile», la regola dei suoi pensieri e dei suoi progetti, delle sue azioni e delle sue omissioni, interamente modellata sull’uomo. Il leitmotiv precapitalistico serbava ancora la sua efficacia: «Omnium rerum mensura homo», la misura di tutte le cose restava sempre l’uomo. O per essere più esatti: la naturale e significativa elaborazione della vita restava la misura di tutte le cose. Il borghese avanza ancora poderosamente sulle sue gambe, non cammina ancora sulle mani.
E proprio quest’ultima osservazione di Sombart ci porta a riflettere sulle grandi discontinuità che si frappongono fra il mondo di Cotrugli e il nostro presente.
In primo luogo, tra le grandi discontinuità si pone la rivoluzione industriale (che Cipolla paragona, per forza dirompente, alla rivoluzione agricola), frutto, a sua volta, di tante forze in movimento ma, certamente, anche conseguenza diretta della rivoluzione scientifica, il grande dono del Seicento. Sarà la rivoluzione industriale, dopo lunga incubazione, a sparigliare tutte le carte, creando forti discontinuità. Sarà questa a cambiare, in parte, la natura dell’impresa, il suo ruolo nella società, la figura dell’imprenditore, la sua etica, a far nascere la grande impresa.
Nel giro di centocinquant’anni a partire dalla metà del Settecento, e soprattutto, in modo vertiginoso e vorticoso, nei secondi cinquant’anni dell’Ottocento, tutto lo scenario cambia profondamente. Acciaio, telegrafo, ferrovie, elettricità, chimica e, poco dopo, l’automobile, solo per menzionare le innovazioni più rilevanti, scatenano le forze del moderno capitalismo. L’etica personale di Edison e di Henry Ford, limitandomi a citare due colonne portanti dell’imprenditoria moderna, è ancora, in fondo, quella dei Franklin e dei Cotrugli. Ma non è più tale l’etica delle gigantesche imprese che rapidamente prendono corpo dalle loro innovazioni né dei manager che le dirigono. Qui lentamente, ma non troppo, avviene il passaggio verso il principio: «Fiat productio et pereat homo». In realtà tutto ciò migliora enormemente lo stato materiale dell’uomo. Non è di questo che discorriamo. Quello di cui discorriamo è di un principio, di una scala di valori, di una scala di priorità.