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La responsabilità del dire

La Treccani ha inserito una nuova voce nel suo vocabolario. Si tratta di “What Ever it takes”, frase pronunciata nel 2012 da Mario Draghi e definita come un marcatore linguistico temporale, perché segna un prima e un dopo delle decisioni assunte in materia di politica monetaria.
L’abilità linguistica di qualunque decisore sta proprio nel riuscire a trovare le formule migliori per indicare le strade e le soluzioni, soprattutto nei momenti di crisi.

Proprio nelle fasi più difficili come quella che abbiamo vissuto nel corso degli ultimi mesi, è emersa la capacità (o la non capacità) di utilizzare le parole giuste per fornire indicazioni che non fossero contraddittorie, per soprattutto mettere nelle condizioni i cittadini di avere la piena consapevolezza che i decisori fossero nelle condizioni di assumere le decisioni più corrette per il bene comune.

Nell’epoca della trasparenza e della comunicazione globale abbiamo, comunque, assistito a clamorosi errori e a tentativi goffi di mistificazione, che hanno messo in pericolo vite umane e interi sistemi economici.
La responsabilità del dire dovrebbe, invece, caratterizzare, a diversi livelli, la comunicazione pubblica a tutela degli interessi comuni, e questa responsabilità dovrebbe estendersi (in una fase di crisi come quella che stiamo attraversando), anche a chi fa comunicazione di parte, nell’attesa di assumere eventuali responsabilità di governo. Ciò non significa voler imporre una sorta di pensiero unico, ma stabilire alcuni punti di riferimento (dei marcatori linguistici) inderogabili.

Il tema sarà, a breve, di grande attualità quando si avvierà la stagione dei vaccini e, si spera, anche di quella del vaccino contro il COVID-19. Il dibattito potrà essere aspro ma se travalicasse certi confini, produrrebbe conseguenze non meno gravi di quelle causate dalla pandemia. Certe parole, infatti, possono produrre un contagio più pernicioso di quello generabile da uno starnuto senza fazzoletto.