Virdimura è un personaggio della Catania ebraica medievale, e più precisamente una donna-medico effettivamente vissuta in quell’epoca. Nata nel capoluogo etneo, nell’estate del 1302, mentre sua madre lasciava questo mondo, restava affidata alle amorevoli cure del padre, un medico ebreo, maestro, Uria; un bravo ed autorevolissimo uomo di scienza, noto per la passione con cui si dedicava alla cura del prossimo, senza distinguere tra cristiani, mussulmani ed ebrei, che tanti, in quell’epoca, affollavano le popolose strade della prospera cittadina posta alle falde dell’Etna. Uria impose a sua figlia il nome, in vero alquanto insolito, di Virdimura, che rispondeva alla denominazione del muschio di color verde che cresceva copioso, in inverno, sulle mura della città. La ragazzina, ben presto e con estrema naturalezza, venne a contatto con il mondo dei malati e delle infermità, delle sofferenze, della guarigione e della morte, e dal padre, apprese, assai in fretta, e pure prima di molte altre cose della scienza medica, che il corpo, con la sua fragilità della carne, è il luogo in cui è possibile incontrare la Trascendenza.
Questa figura bella e rivoluzionaria sarebbe rimasta relegata, in gran parte, al mondo della storia leggendaria incerta e dei racconti popolari fantasiosi, se la scrittrice Simona Lo Jacono, magistrato in servizio presso la Corte d’Appello di Catania, con il suo romanzo Virdimura (Edizioni Guanda) non le avesse reso giustizia. L’ideazione e la stesura del racconto sono state precedute e quindi supportate da accurate ricerche e dal rinvenimento di prove storiche. Il risultato è stata una narrazione fluida, la cui trama è attraversata da un filo conduttore in cui primeggia l’affermazione del diritto di tutti di essere curati e delle donne di essere libere da preconcetti e limitazioni nelle scelte della loro vita.
È veramente difficile ridurre a queste poche righe il messaggio assolutamente innovativo che viene da Virdimura, ma per un primo approccio, giova ricordare che la nostra protagonista, quando ormai avanti negli anni giunse davanti alla commissione che doveva abilitarla all’esercizio dell’arte medica, chiese espressamente che nella sua abilitazione all’esercizio della professione fosse specificato che veniva autorizzata alla cura gratuita degli indigenti. Questa era una circostanza assai particolare ed indice di una non comune sensibilità sociale, in quanto le leggi vigenti a quell’epoca, esigevano che le prestazioni mediche dovessero avvenire solo a titolo oneroso, e quindi solo se retribuite da un giusto compenso, giacchè l’onorario corrisposto al medico era soggetto ad imposizione fiscale e quindi fruttava tasse all’erario. Con la conseguenza che i più poveri non potevano ricevere alcuna cura e finivano abbandonati presso il Bastione degli Infetti, (che ancor oggi la toponomastica ricorda) una sorta di lazzaretto a cui erano destinati i bisognosi e che brulicava di disabili fisici e psichici, abbandonati alla loro infelice sorte.
Questa sensibilità che le derivava dalla sua fede, non le impedì di violare un importante precetto religioso dell’ebraismo. Infatti, malgrado la religione ebraica indichi come fonte di impurità qualsiasi contatto con i cadaveri, pur avendo questa consapevolezza, lei li sezionava, nel corso delle ricerche, che sin da fanciulla condusse insieme al padre.
Virdimura nella sua carriera non si limiterà a conoscere i rimedi con il sapiente utilizzo delle erbe officinali, o dedicarsi alle cure ginecologiche e di ostetricia, come facevano altre donne nel Medioevo, ma seguendo gli insegnamenti paterni, riuscì ad ottenere un’abilitazione che le consentirà di praticare la terapia medica in generale, la cosiddetta “arte chirurgica delle carni”, una novità assoluta per una donna, che non aveva precedenti. La vita di Virdimura, vissuta accanto al marito Pasquale, anch’egli ottimo medico, sarà irta di difficoltà perché dovrà attraversare gli anni della carestia del 1330, del tifo e della letale peste nera del 1347.
Spingendosi ancora una volta oltre il limite del consentito, fonderà un ospedale, dove praticherà l’insegnamento dell’arte medica in favore di altre donne e non rifiuterà i suoi servigi ai cristiani, ancora in violazione di una legge promulgata da Federico III D’Aragona, che vietava ai medici ebrei di curare persone diverse dagli ebrei. Una donna così diversa e poco comprensibile per i suoi tempi, che verrà additata come strega, anche a causa del suo viso lentigginoso e dei capelli rossi ed anche accusata di meretricio, per il rapporto diretto che aveva con i suoi pazienti, senza distinzione di genere. Il libro è corredato da un originale documento scritto in latino, tratto dall’Archivio storico di Palermo, che riguarda la protagonista.