A quanti siciliani, magari in vacanza all’estero, è capitato di non saper rispondere alla domanda: “Qual è un piatto tipico della tua terra?”. Forse parecchi. E non perché l’Isola non ha piatti tipici, anzi, tutto il contrario. Un po’ come quando si hanno troppe cose da dire e si finisce per non dirne nemmeno una. Proviamo a fare un elenco delle cose più conosciute: arancini, pane e panelle, sfincione, pane ‘ca meusa (panino con la milza), pasta alla norma, pasta con le sarde e muddica atturrata (mollica tostata ndr), i taddi, scacciate, sarde a beccafico, pesto alla trapanese, poi cassate, cassatelle, granita, brioche per la granita. E mancano un’infinità di cose. Non a caso Palermo è stata nominata Capitale europea dello Street food.
Addirittura una volta, sui social, mi è capitato di leggere che per risolvere la diatriba arancinO/arancinA si potrebbe utilizzare lo Schwa – l’elemento consonantico utilizzato per la neutralizzazione di genere, questo per intenderci –. Un “derby” che va avanti da anni (o forse secoli) così come quello sulla nascita di questa pietanza. C’è chi parla di origini arabe, dal momento che questi avevano l’abitudine di mettere un po’ di riso nel palmo della mano per poi mangiarlo con della carne di agnello. O chi parla di un cibo nato inizialmente come dessert. Fatto sta che a Palermo si chiama arancina (al femminile) per via della sua forma tondeggiante e dunque simile a un’arancia. Mentre a Catania l’iconica punta rappresenterebbe il Mungibeddu, l’Etna, il vulcano: da qui il maschile, arancino.
Persino l’Accademia della Crusca è arrivata a esprimersi sulla questione che però ancora oggi rimane irrisolta. Sarebbe più utile invece soffermarsi sull’unicità di questa specialità tutta siciliana (c’è chi ha il coraggio di dire che a Roma hanno i supplì che sono simili…), semplice ma la cui preparazione richiede tempo. A voler ridurre all’osso la ricetta possiamo dire che bastano tre ingredienti: riso, pomodoro e macinato di carne che messi insieme possono far scattare nei siciliani – specialmente quelli fuorisede – una Madeleine de Proust, rievocando i ricordi d’infanzia.
Una volta, mentre ero a Roma, mi è capitato di assistere a una scena: passeggiavo tra le bancherelle del mercato di Campo de’ Fiori e ho visto un commerciante che vendeva frutta e verdura buttare tra gli scarti i taddi, una cosa che in Sicilia tutti abbiamo mangiato almeno una volta. Per chi non lo sapesse i taddi (in italiano tenerumi) sono le foglie della zucchina serpente (Lagenaria Longissima) coltivata principalmente nell’Isola – probabilmente per questo nel resto d’Italia vengono buttate –. Ma dovete sapere che rispetto ad altri ortaggi le foglie di questa zucchina sono commestibili e oltre ad avere molte proprietà – sono purificanti, diuretici e contengono elevate quantità di sali minerali come potassio, magnesio e calcio – sono anche molto buone. Solitamente i taddi vengono utilizzati per condire la pasta – lo spaghetto spezzato è un must in questo caso – insieme a olio extra vergine di oliva e un po’ di formaggio (meglio se in casa avete la ricotta salata). Inutile dire che questo piatto proviene dalla cosiddetta “cucina povera” che, visti i tempi o se vi dovesse capitare di mangiarlo al ristorante, ormai così “povera” non è.
Se invece parliamo di “trionfi di gola”, per utilizzare un concetto gattopardiano, si potrebbe citare senza ombra di dubbio il cannolo o la cassata. Ma c’è un dolce che, qui in Sicilia, in molti conoscono e mangiano – con tutte le varianti del caso – che però ai più è sconosciuto. Si tratta dei biscotti di mandorla, viscotti i miennula, tanto amati dallo scrittore menenino Luigi Capuana, che li aveva rinominati “uova dolci” (e da non confondere con le paste di mandorla). Una curiosità letteraria che, nel 2016, venne portata alla luce da “Ispica Ospitalità Diffusa” in occasione dell’inaugurazione della casa editrice “Kromato Edizioni” che per l’evento decise di ristampare il romanzo dello scrittore di Mineo, “Profumo” e recuperare l’antica ricetta dei biscotti (con tanto di apprezzamento da parte del poeta), inventata da Elena Gennaro e risalente al 1880.
Nel testo originale si legge: “Si fa cuocere 4 tuorli d’uovo in 4 cucchiai di miele, si cuocino duri. Si atturrano 4 oncie di mandorla, si pesta fina, mettendoci nella mandorla scorza di limone grattata, o tagliata la scorza a fettine finissime. Si battono le 4 chiare d’uovo, col miele dove sono stati cotti i 4 tuorli d’uovo e il tutto si fa cuocere come crema quagliata mettendoci vaniglia o cannella pestata fina. Dopo si situa in un piatto da portata il contenuto, collocando a disegno i tuorli e mettendo di sopra zucchero fine e cannella pestata fine. Dopo si sbolliscono un po’ di mandorle, si pelano, si tagliano per lungo a pettine e si contornano i tuorli d’uovo, mettendole a dritta. Non avendo miele si può usare invece zucchero e si cuocino lo stesso”.
Come si è visto, qui in Sicilia, ogni piatto – anche quello che potrebbe sembrare più “banale” – nasconde e porta con sé miti e leggende che racchiudono ed esprimono la sicilianitudine: quella condizione esistenziale che noi siciliani portiamo anche a tavola.