Il Def (Documento di economia e finanza), da poco approvato dal Consiglio dei ministri, ci fornisce un’inquietante cifra relativa al costo degli interessi del debito sovrano, che sono costati l’anno scorso 60 miliardi, per passare a 74,7 quest’anno, a 91,3 nel 2025 e poi il bang dei 100 miliardi nel 2026; una cifra impressionante, pari al cinque per cento del Pil, che sarà intorno ai duemila miliardi.
Questo enorme aumento del costo per interessi sul debito sovrano è conseguenza della cessazione del Quantitative easing da parte della Bce a cominciare dal prossimo mese di luglio, in quanto la stessa Banca centrale europea non comprerà più titoli del debito italiano a costo zero. Perciò il Mef dovrà preoccuparsi di piazzare i titoli in emissione, per compensare quelli in scadenza sul mercato mondiale.
In Giappone il debito sul Pil è intorno al duecento per cento, quindi molto più elevato del rapporto italiano, ma è quasi tutto assorbito dal risparmio dei giapponesi. In Italia, invece, il debito pubblico è assorbito dal risparmio nazionale per non oltre un quarto.
Il quadro che rappresentiamo fa comprendere la vulnerabilità dell’indebitamento italiano, perché tre quarti dello stesso è in mani straniere, le quali acquistano i titoli solo se hanno una giusta remunerazione, tenuto conto del rischio che essi hanno in sé.
Si deve tener conto anche della maledetta inflazione scatenata dalle sanzioni nei confronti della Russia, le quali hanno messo in moto l’aumento indiscriminato dell’energia e della speculazione conseguente, per cui i prezzi al consumo hanno avuto aumenti del dieci/dodici per cento, facendo scattare la progressione dell’inflazione che era tranquilla intorno all’uno per cento.
Le due Banche Centrali, quella americana (Fed) e quella europea (Bce), sono state costrette ad aumentare il tasso base, per cui negli Usa esso è arrivato al 5 per cento e in Europa al 3,5 per cento. Questo incremento non si fermerà perché l’inflazione è intaccata, ma non domata. Infatti essa scende, ma molto lentamente, creando un danno irreparabile ai risparmi, agli stipendi, agli immobili, ai titoli e a tutti i beni che si vedono decurtare il loro valore.
Nel Consiglio direttivo della Bce vi sono i cosiddetti “falchi”, cioè i rappresentanti della Banca centrale tedesca, nonché quelli delle banche dei Paesi nordici e degli altri che stanno molto bene, come Olanda, Belgio, Irlanda e Lussemburgo.
Questi “falchi” non solo pretendono che il Quantitative easing cessi, come è stato deliberato, il prossimo giugno, ma esigono che venga messo in discussione il rientro dallo sforamento del rapporto fra debito pubblico e Pil, soprattutto dei Paesi più deboli come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo.
Da quanto precede, si spiega la cautela dell’attuale ministro dell’Economia e Finanze, Giancarlo Giorgetti, il quale si sta dimostrando un draghiano doc per la sua competenza e prudenza, che ha espresso nel Def citato e che si riverbererà con molta probabilità nel Bilancio 2024.
Nell’attuale Bilancio, tuttavia, è previsto uno sforamento del 4,5 per cento delle uscite rispetto alle entrate.
Quanto appena detto significa che comunque l’indebitamento in valore assoluto aumenta, per quanto il suo rapporto con il Pil sia sceso intorno al 144 per cento. Ma la discesa non deve ingannare perché comunque tale quoziente è pericolosissimo, in quanto mette in pericolo la stabilità del Paese sotto il profilo finanziario.
Per migliorare il rapporto fra debito e Pil la strada maestra è far crescere quest’ultimo, il quale aumenta se si fanno investimenti in infrastrutture, servizi tecnologici, nella super rete digitale e in altre parti strutturali indispensabili affinché la ruota economica giri più velocemente.
In questo quadro assume una funzione importantissima il Pnrr. Ma la scadente qualità delle burocrazie nazionale, regionali e comunali non consente di spendere tutte le somme previste entro il termine tassativo del 2026, col ché si dovrà rinunziare a una parte del finanziamento o, peggio, alla parte di contributo a fondo perduto.
È un vero peccato che il nostro Paese, con un apparato imprenditoriale di primo ordine, si muova lentamente per i pesi burocratici che lo asfissiano. Perciò bisogna cambiare spartito.