LE SORELLE MACALUSO
Regia di Emma Dante. Con Simona Malato (Maria adulta), Donatella Finocchiaro (Pinuccia adulta), Maria Rosaria Alati (Lia anziana), Viola Pusateri (Antonella)
Usa 2020, 94’
Distribuzione: Teodora
Martellare e scavare. Senza sosta, per liberarsi di un buio che proviene da dentro ma che circonda ogni cosa. E infine guadagnarsi uno spicchio di luce. A sette anni di distanza da “Via Castellana Bandiera”, Emma Dante torna al cinema riducendo un proprio fortunatissimo testo teatrale.
“Le sorelle Macaluso” mette in scena cinque sorelle palermitane in tre età della vita, fuori ma soprattutto dentro le stanze di un attico con piccionaia nella periferia di Palermo. La presenza di decine e decine di colombi, prima ammassati nell’ambiente interno a loro dedicato, poi più volte in volo nel cielo siciliano, infine sparpagliati tra arredi vetusti, scale e soprammobili, segna anche graficamente una scrittura scenica che, lavorando per accumulo e nutrendosi avidamente di figure retoriche, ambisce al dialogo con il mito e la letteratura in un percorso di educazione estetica su temi universali come la bellezza reclusa, il libero arbitrio, la memoria, l’eternità.
Nel primo atto (giovinezza) lo sguardo onniscente della regista penetra negli ambienti anche da angolazioni impossibili, con uno stile visivo pieno di energia e una confezione estremamente ricercata: una Gymnopédie di Satie che da intradiegetica si trasforma in extradiegetica; tutto il respiro e la vita nascosta di una casa vuota; l’attraversamento di un parco di dinosauri che stabilisce come personaggi e narrazione siano impossibili da rinchiudere entro rigide gabbie spaziali e temporali. La macchina da presa pedina i personaggi, talvolta li precede ma sempre li inquadra rispondendo ad un’esigenza puramente estetica. La demiurgica presenza autoriale, infatti, fatica a cedere la scena all’azione, ogni singolo bacio è coreografato, i protagonisti ridotti a uno stato di bidimensionalità che privilegia il conflitto esteriore a quello interiore e anche le artefatte scene di ballo ultrapop mostrano un’idea di felicità piuttosto trita e convenzionale.
I capitoli della maturità e della vecchiaia hanno tempi più diluiti, le risate sono sempre e solo fuori campo, la fotografia livida e il tictac dell’orologio scandiscono un tempo che non vive solo nella realtà presente ma che si nutre di un passato irrimediabilmente segnato dalla tragedia.
Sempre più uguali a se stesse, le protagoniste agiscono conformemente all’etichetta imposta loro sin dall’inizio (la lesbica sensibile, la pazza invidiosa, l’ingorda egoista) senza alcuna speranza né di un arco di trasformazione né di un principio di sviluppo.
La casa diventa così il luogo in cui si consuma un contrappasso dantesco di estrema violenza espressiva, eco di una condanna infernale. Costellata di eterni ritorni (un rossetto, una barretta di cioccolato, Satie, i colombi) la scrittura scenica si fa sempre più didascalica e debordante, imponendo una ciclicità strutturale interna che tradisce un esasperato formalismo.
Voto: ☺☺1/2☻☻