Sanità

Lockdown due, “Il rischio è quello di un cortocircuito emozionale”

Lockdown è un anglicismo che ha due significati: confinamento e misura di emergenza da intraprendere in situazioni di pericolo.
All’inizio di quest’anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità e i media hanno iniziato a descrivere come lockdown anche le misure intraprese per contenere la diffusione della Covid-19.

A livello governativo tale anglicismo non è di uso comune, tanto da essere sostituito con il termine distanziamento sociale, che descrive, in modo più preciso, le misure di contenimento per contrastare l’epidemia.
Di fatto, di la delle sfumature, il lockdown comporta un isolamento che lascia l’uomo in balie di ragionamenti ed emozioni che se mal gestiti ne stravolgono la vita relazionale.
Negli esseri umani le emozioni giocano un ruolo fondamentale, specie nelle situazioni traumatiche, come nell’attuale epidemia di Coronavirus Covid-19, che sta avendo un importante impatto psicologico sulle persone.

Nel corso dell’attuale epidemia da coronavirus, il conseguente stato di di stress che si determina, può comportare l’insorgenza d’irritabilità, aggressività verbale, disturbi del sonno e della concentrazione, ansia, panico, deflessione del tono dell’umore, somatizzazioni, abbassamento delle difese immunitarie. Per altro, l’attuale situazione di lockdown, atta a limitare il contagio da coronavirus attraverso l’isolamento, costringendoci a interrompere le rassicuranti abitudini quotidiane, può creare un successivo stato di disorientamento e di disagio.

I meccanismi che sottendono le risposte conseguenti a un input emotivo attengono all’integrazione dei tre cervelli di MacLean: quello rettiliano del tronco encefalico, che regola i comportamenti più istintivi e le reazioni del corpo; quello limbico che è il regno delle emozioni; e quello della neocorteccia prefrontale che svolge i processi mentali superiori, come la logica e la ricerca di significato.

Il primo segnale, nelle situazioni traumatiche come lo è quella del Coronavirus, è sempre una risposta da stress, con uno stato di allerta o tensione, determinato dal fatto che il virus fa paura perché invisibile, ignoto, virale nel senso del comune sentire e quindi percepito come un pericoloso predatore inarrestabile, che ci fa sentire impotenti dinanzi a qualcosa di sconosciuto e ci rende vulnerabili.

A questo si aggiunga per altro il continuo martellamento dei media che sgocciolano numeri e la confusa comunicazione di epidemiologi e virologi, spesso l’un contro l’altro armati. Di fronte a un forte stress mettiamo in atto risposte che hanno un valore adattivo e ci permettono di affrontare la situazione al meglio.

La paura non è di per sé una risposta negativa della nostra mente, essa, in condizioni normali, va considerata come una risposta di allarme indispensabile a mettere in atto le successive fasi di attacco o fuga. In condizioni normali, a uno stato di allerta e tensione, si risponde con una gestione cognitiva dell’emozione, che porta a una fase di adattamento ed esaurimento della risposta da stress.

Se la paura persiste, il passaggio da una condizione di eustress a quella di di stress diventa molto probabile.
Se la condizione di stress persiste, c’è il rischio che tale scambio d’informazioni venga meno, con un precipitare degli eventi, con conseguente ansia, panico, deflessione del tono dell’umore e somatizzazioni.
Queste manifestazioni cliniche sono espressione di due meccanismi che tendono ad autoalimentarsi a vicenda: l’asfissia emozionale e quella cognitiva, quest’ultima strettamente legata alle distorsioni cognitive. Entrambi precipitano la persona in un cortocircuito emozionale.

L’asfissia emotiva esprime la disgregazione fra una funzionale attivazione (eustress o stress positivo) e un eccesso di allerta, con comportamenti poco lucidi e controproducenti (distress o stress negativo), legati al persistere della condizione stressante.
Quando l’evento traumatico persiste nel tempo, come nel caso del Coronavirus, amplificato da un martellamento mediatico, informazioni scientifiche spesso dissonanti e manipolazioni politiche dequalificanti, noi abbiamo maggiori difficoltà a sopportare situazioni di allerta o tensioni.

Quando si attraversa un periodo di crisi, di vuoto esistenziale, qual è quello di questo momento storico, dove lo tsunami del coronavirus ci ha investito violentemente, ci si sente intorpiditi, ripiegati su noi stessi, poco inclini a metterci in gioco, prigionieri dei nostri esasperati ragionamenti. I nostri entusiasmi si sono spenti, ci sentiamo appiattiti nel nostro tran tran quotidiano, schiacciati dalle delusioni, dai fallimenti, dai lutti, dalle disavventure, dagli sbandamenti, dalle insoddisfazioni, e abbiamo deciso di non reagire, tiriamo tutti a campare.

Quando le nostre vite sono sclerotizzate dai conflitti e dalle frustrazioni esistenziali in cui ci dibattiamo, siamo tormentati dal proiettarci nel passato, origine dei nostri disagi, e nel futuro, carico di ansie e preoccupazioni, diventiamo incapaci di vivere appieno il nostro presente.
Viviamo razionalmente immersi in queste domande contrastanti, dimentichiamo chi siamo e precipitiamo, progressivamente, verso una perdita di senso e di significato che ci rende inadatti a sopportare e a dare valore alla nostra sofferenza.

In queste circostanze, il disagio esprime un mal funzionamento dell’equilibrio tra la parte razionale e quella inconscia, per cui non riusciamo a vivere il presente, fatto di emozioni e vissuti di prevalente appannaggio della nostra parte inconsapevole.
Le emozioni si accompagnano a reazioni psicofisiche che si attivano all’interno del corpo e della mente dell’individuo, mentre accoglie, elabora e reagisce alla moltitudine di eventi e situazioni in cui quotidianamente è immerso.

Questo mal funzionamento, non dipende solo da un’inefficiente comunicazione tra i due emisferi, ma anche, e principalmente, dalla competizione che si viene a creare tra il cervello cognitivo – razionale e immaginativo, di competenza dei due emisferi, e quello emotivo, gestito da una nobile parte del cervello, il sistema limbico.

Il dato certo è che questa epidemia da Coronavirus, al pari di ogni trauma, cambia in profondità le singole persone e un intero popolo, rendendolo più fragile. Il virus ci cambierà per sempre, economicamente e socialmente, segnerà il nostro tempo come la spagnola, la poliomielite o la guerra e segnerà l’inizio di una nuova era.

La nostra idea del mondo dove pensavamo esistessero popoli più vulnerabili e culture nobili, quasi inattaccabili, cambierà perché scopriremo di essere tutti più fragili.

La paura della malattia ci avrà insegnato che la nostra innata tendenza a vedere gli altri diversi da noi e le distanze, che mettevamo tra noi e gli altri, si sono annullate.
Al contempo, come le grandi pandemie e la guerra hanno temprato le generazioni precedenti, anche il coronavirus lascerà segni di nuova consapevolezza.

In prospettiva futura bisognerà ricostruire partendo proprio dalla crisi. La parola “crisi”, deriva etimologicamente dal greco krino cioè separare, giudicare, valutare, e da qui bisognerà ripartire, sperimentando nuove capacità creative personali e sviluppando prodotti e modi di commercializzazione innovativi. A oggi comunque, il difficile momento appare a noi tutti come una faticosa scalata di una montagna, ma rimanendo uniti come fossimo una cordata di scalatori, arriveremo tutti in cima.
Da li comincerà la discesa, in basso potremmo di nuovo abbracciarci.

Maurizio Arena
Neurologo e psicoterapeuta