Luana, hai raccontato la tua storia nel libro, “Luigi Ilardo – Omicidio di Stato”, scritto da Anna Vinci. Perché lo definisci tale? Qual è la tua storia?
“Lo definisco un omicidio ed un tradimento di Stato perché negli anni ho avuto tutti gli elementi per poter pensare che non fosse soltanto un omicidio di mano mafiosa così come volevano far intendere. Il processo è sempre stato lasciato di fatto a delle possibilità di fughe di notizie avvenuto dalla procura di Caltanissetta. Ci sono diversi elementi che avvalorano questa mia tesi (dichiarazioni di pentiti, intercettamenti ecc). Ci sono delle importantissime responsabilità dietro quest’omicidio. Chi doveva proteggere e tutelare mio padre in questo cammino non ha fatto quello che doveva fare. Mio padre non era un semplice collaboratore di giustizia, ma un infiltrato negli ambienti mafiosi, rapportando il tutto al colonnello Riggio”.
Cos’è cambiato nelle famiglie dei collaboratori dal 1996 ad oggi? C’è maggiore sicurezza e meno abbandono da parte dello Stato?
“La storia di mio padre, così come quella di Nino Gioè hanno insegnato e raddrizzato il tiro ai futuri collaboratori. Ho sentito dire, alcune volte, che si ha quasi la paura di collaborare per le conseguenze che si potrebbero rischiare. Mio padre per due anni ha collaborato con la giustizia in serenità permettendo di realizzare tantissimi arresti. Successivamente, quando ha toccato dei nomi eccellenti di personaggi politici ed istituzionali è arrivato il momento della sua morte. Oggi abbiamo un protocollo che funziona ma che ha tante lacune, che spesso non si rileva efficace come dovrebbe essere. I cambiamenti, purtroppo, sono arrivati anche in peggio. Non per ultimo, l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Basterà dire, ‘io mi sono dissociato’, senza dare una reale collaborazione preziosa che potrebbe aiutare lo Stato e gli inquirenti ma avendo allo stesso modo la possibilità di usufruire di alcuni benefit come quello della scarcerazione. Ritengo che tutto questo sia un’offesa a quelle persone che, invece, sono diventate collaboratori di giustizia dando delle informazioni importanti e dimostrando la loro reale collaborazione. Spesso, ciò comporta da parte di chi si dissocia di poter tornare tranquillamente liberi, nei propri luoghi d’origine, una volta espiantata la pena. Una cosa assolutamente impensabile, per chi, invece, ha scelto di collaborare.”