“È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti” scriveva il grande William Shakespeare. È proprio a tornare sull’affascinante satellite naturale, che punta Luca Parmitano, astronauta 45enne dell’Esa (Agenzia spaziale europea) di origini catanesi che, dopo una lunga carriera in Aeronautica militare come pilota collaudatore sperimentale, a partire dal 2013 ha iniziato a “passeggiare” tra i pianeti, detenendo il record, attualmente imbattuto tra i colleghi dell’agenzia, di 366 giorni non cumulativi nello spazio. Una passione nata dall’adolescenza quella di Luca, come lui stesso ci ha raccontato in esclusiva ai microfoni del QdS, che è diventata poi un vero e proprio stile di vita. Una vita fatta di lanci e nuove scoperte, di emozioni passate e ambizioni future e di missioni che, ogni volta, hanno il sapore della prima e dell’ultima volta.
Da sogno da bambino a un vero e proprio lavoro: come si diventa astronauta?
“Si tratta di un cocktail di elementi molto variabile a seconda della persona. Non esiste una formula per così dire ‘perfetta’ perché ognuno di noi, all’interno del corpo astronautico, ha seguito percorsi differenti. Vi sono, però, degli elementi comuni per chi fa questa professione. Alla base di tutto, sicuramente, vi è una formazione importante e una preparazione eccellente a partire da scuola e università, che prosegue nel mondo del lavoro. Per diventare astronauti, al giorno d’oggi, bisogna avere un background da scienziati, ingegneri oppure da operatori, ovvero essere stati impegnati in missioni. Quest’ultimo è il mio caso in quanto nasco come pilota caccia e poi pilota sperimentatore collaudatore, il punto di partenza per la mia attuale carriera. È proprio per questo motivo che gli astronauti vengono selezionati intorno ai 30-35 anni poiché hanno avuto la possibilità di acquisire un background professionale e un curriculum vitae di tutto rispetto per poi accedere ai concorsi di selezione. Una volta selezionati, i candidati hanno l’occasione di accedere ai percorsi formativi che li prepareranno per andare in orbita e diventare così astronauti professionisti, ovvero membri del corpo europeo, ma lo stesso vale anche per la Nasa, il Giappone e il Canada. Da qualche anno a questa parte va detto che è anche possibile accedere allo spazio come privati cittadini pagando delle società specializzata in qualità di ‘turisti spaziali’ o, come si suol dire oggi, come ‘astronauti privati’. Quest’ultimo è un percorso totalmente differente che non richiede alcuna preparazione specifica perché si tratta di una vera e propria esperienza di divertimento”.
Il tuo desiderio era proprio quello di fare questo mestiere? Com’è nata questa passione?
“Il mio lavoro è sicuramente nato come un sogno per poi trasformarsi in un vero e proprio percorso di vita. Già quando sono entrato a 19 anni in Accademia Aeronautica il mio sogno era quello di volare. Proprio quest’esperienza mi ha permesso di acquisire un’incredibile preparazione e ancora oggi mi risulta difficile spiegare quanto tale percorso mi abbia trasmesso come pilota, come leader ma anche come gregario, come allievo e istruttore. Ho accumulato un tale bagaglio di conoscenze ed esperienze che mi ha permesso di diventare l’astronauta che sono oggi”.
Come appare la nostra Sicilia vista dallo spazio?
“Nel corso delle varie missioni che ho svolto ho fotografato la nostra terra in tutte le condizioni possibili: di giorno, al tramonto o di notte, spolverata o completamente coperta di nubi, avvolta dalla cenere vulcanica o dalla sabbia africana. L’ho guardata, scoperta e amata in tutte le versioni che ho avuto il privilegio di osservare. La Sicilia non è soltanto un territorio ma un pezzo importante della mia vita: lì risiedono le mie radici, la mia infanzia e l’inizio del mio percorso di studi. È la porta dalla quale sono uscito e continuo ciclicamente a rientrare per riportarla dentro me e vederla dalla spazio è un immenso onore che condivido con tutti gli altri astronauti. Vi assicuro che è così iconica e inconfondibile, con la sua forma triangolare e nel mezzo del Mediterraneo, che i colleghi di tutto il mondo che siano canadesi, americani o russi non possono che ammirarla per la sua bellezza dall’alto”.
Qual è la nuova porta sullo spazio che ci aprono le immagini recentemente diffuse dal Telescopio spaziale Nasa James Webb?
“Il Jwst per l’astrofisica è l’equivalente di confrontare un microscopio ottico con uno elettronico: la capacità di dettaglio, analisi e precisione è esponenzialmente elevata rispetto a ciò di cui disponevamo fino ad oggi. Space Hubble, il telescopio orbitante che ci ha allargato l’universo negli ultimi 20 anni, continua a essere un’importantissima base di osservazione ma la strumentazione a bordo del Jwst è sicuramente più moderna e di ultima generazione e ci ha consentito non solo di potenziare e ampliare lo spettro di sensori che siamo in grado di utilizzare ma ci permette, addirittura, di viaggiare nel tempo. Quando osserviamo le immagini provenienti da miliardi di anni luce fa stiamo di fatto andando indietro nel tempo e riuscire a raggiungere dettagli di strutture spaziali che si sono formate 13 miliardi di anni fa, vuol dire avvicinarsi sempre di più alla nascita del nostro universo. In tal senso, ogni immagine del James Webb racchiude anni di future analisi per gli astrofisici e per tutti gli studiosi delle discipline connesse, per mettere al vaglio dettagli finora totalmente sconosciuti. Non si apre, dunque, solo un nuovo capitolo di studi bensì stiamo assistendo alla pubblicazione di interi libri della scienza e della conoscenza, osservando qualcosa che non potevamo neanche lontanamente immaginare. Il bello della ricerca scientifica è proprio questo: il fine ultimo non è solo quello di trovare nuove risposte ma spesso è indispensabile porsi nuove domande”.
La missione che ricordi con più emozione?
“È una scelta impossibile. Nella mia esperienza ogni piccolo avvenimento ha un valore assoluto che è imprescindibile dall’evento stesso ed è impensabile poter stilare una graduatoria. Come posso differenziare in termini di emozioni il primo lancio o il secondo o l’ultimo rientro? Ogni missione per me potrebbe essere l’ultima perché non so mai se e quando ritornerò in orbita. Ricordo tutto con grande coinvolgimento, dalla prima volta in cui ho visto la Terra dallo spazio alla prima alba spaziale, o le attività extraveicolari o, ancora, le quattro attività della seconda missione in cui ho avuto il privilegio di essere non solo il comandante della stazione ma di essere anche alla guida del processo di riparazione di uno strumento unico al mondo quale l’Ams-02, uno spettrometro alfa magnetico. Ciascuno di questi ricordi ha un valore intrinseco incommensurabile che mi ha permesso di evolvere, cambiare e trasformarmi”.
Cosa ti aspetta nel futuro?
“Presto tornerò in pianta stabile a Houston per riprendere il mio ruolo di astronauta e di ufficiale di collegamento dell’Esa e questo mi permetterà di continuare a seguire le operazioni da un punto di vista prettamente pratico. Sarò coinvolto nello sviluppo di procedure e di nuovi hardware per le missioni future e spero che ciò significhi anche essere partecipe dei due programmi che stiamo approntando a livello internazionale. Una è la Artemis, per il ritorno sulla Luna e l’altra, con l’Agenzia spaziale europea, il programma è Gateway, ovvero un habitat che stiamo costruendo e che assembleremo in orbita intorno alla Luna. Se dovessi parlare di sogni e di possibilità è chiaro che spero di essere un buon candidato per uno di questi due progetti. Molto probabilmente non andrò sulla superficie lunare perché si tratta di un programma di lunga scadenza intorno al 2030 ma sicuramente nei prossimi 10 anni andremo in orbita intorno alla Luna e credo che la mia esperienza possa essere considerata un ottimo punto di partenza per realizzare questo obiettivo”.