Società

Mafia, Francese, morto per aver scritto “ciò che non doveva”

Mario Francese era un giornalista. Anzi, era il padre del giornalismo investigativo.

Lavorava al “Giornale di Sicilia” e quel 26 gennaio 1979 era uscito dalla redazione salutando i colleghi: “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”.

Non sapeva che non li avrebbe più rivisti, come che non avrebbe più rivisto la sua famiglia

Erano le 21:15 del 26 gennaio 1979 quando Mario Francese arrivò sotto casa, all’altezza del civico 15 di viale Campania. Quella sera non parcheggiò, come al solito, vicino all’uscita dei garage ma di fronte, vicino alla pompa di benzina. Scese dall’auto e attraversò la strada prendendo dalla tasca dei pantaloni le immancabili sigarette e i cerini. Il killer, che risulterà poi essere Leoluca Bagarella detto “don Luchino” uomo d’onore appartenente alla famiglia dei “corleonesi”, gli sparò con una calibro 38 alle spalle.

Bagarella, secondo la testimonianza di Ester Mangiarotti, una donna che era seduta dietro i vetri del balcone di casa sua che si affacciava sul Viale Campania e che vide la scena, aveva sparato con tremenda freddezza e determinazione e, in questo brevissimo arco di tempo, aveva indirizzato ripetutamente lo sguardo verso il balcone della sua abitazione. Mario Francese fu raggiunto da sei proiettili esplosi nei suoi confronti. Quattro lo colpirono alla testa, uno al collo e il sesto ad un dito della mano sinistra. Dopo aver sparato, il killer salì a bordo dell’Alfetta blu su cui era arrivato e sulla quale lo aspettava un complice e l’auto parti imboccando viale Trinacria. La morte di Mario Francese avvenne quasi istantaneamente a causa delle gravissime lesioni cranio-facciali provocate dai proiettili che lo raggiunsero. Dagli atti, emerse che l’unico proiettile repertato proveniva da un revolver calibro 38 special, del tipo Smith & Wesson.

Mario Francese era un giornalista. Lavorava al “Giornale di Sicilia”, il quotidiano palermitano e quel 26 gennaio era uscito dalla redazione salutando i colleghi. Lo fece allo stesso modo di sempre: “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”. Non sapeva che non li avrebbe più rivisti e che non avrebbe più rivisto la sua famiglia. Sulle pagine di quel quotidiano raccontava dell’ascesa dei “corleonesi” Liggio, Riina, Provenzano, Bagarella, e della caduta dei “palermitani” Cavatajo, La Barbera, Torretta e tanti altri. Mario Francese aveva una visione unica del sistema mafioso. Non parlava mai di frattura o cambio della guardia, non parlava mai di discontinuità. La parola che più ricorre nei suoi articoli è “evoluzione”.

Raccontò la strage di Ciaculli, l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e fu tra i primi a capire  e a raccontare che l’omicidio di Peppino Impastato non fosse un atto terroristico, come i depistaggi istituzionali volevano far credere, ma un delitto di mafia. Andò intervistare la madre, Felicia Impastato, ascoltando e dando risalto alla sua voce, voce che era aspramente criticata anche da quei giornalisti che avevano, facilmente, creduto alla versione di Impastato terrorista morto suicida il 9 maggio 1978.

Mario Francese fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Le fece delle domande, una sorta di “lesa maestà” per la moglie del più feroce capo mafia che, proprio in quel periodo, stava scalando la gerarchia di Cosa Nostra. Francese fu anche uno dei sostenitori dell’ipotesi che l’omicidio di Cosimo Cristina fosse un omicidio mafioso. Aveva un approccio al giornalismo unico in quegli anni e che, purtroppo, ancora oggi rimpiangiamo. I suoi scritti non erano articoli ma erano vere e proprie inchieste, tipiche del giornalista abituato a scavare quale era lui. Come quando si occupò della pioggia di miliardi che piovve sulla Sicilia per la ricostruzione post terremoto del Belice.

Gli attentati, i morti ammazzati di Roccamena e Corleone, gli scomparsi del “circondario nero” e, forse, anche qualche clamoroso sequestro hanno accompagnato l’inizio dei lavori per la costruzione della grande diga Garcia che investe i comuni di Contessa Entellina, Roccamena (letto della diga), Monreale, Bisacquino, Santa Margherita Belìce, Montevago, Poggioreale, Salaparuta, Partanna, Campobello di Mazara, Castelvetrano.

Mario Francese scoprì come, alla base del forte scontro interno mafioso, ci fossero i soldi stanziati per la costruzione della diga Garcia e che alcuni dei terreni erano di proprietà dei cugini Salvo, gli esattori siciliani vicini ai “corleonesi”. Il suo fiuto lo spinse ad approfondire gli interessi economici che si nascondevano dietro la costruzione della diga Garcia. Nel settembre del 1977 pubblicò un’inchiesta in sei puntate dove descriveva tutta la rete di collusioni, corruzioni ed interessi che si erano sviluppati per la realizzazione della diga. Fu la prima vera inchiesta dei rapporti tra mafia e appalti mai redatto, dieci anni prima del dossier denominato “mafia-appalti” redatto dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per volere di Giovanni Falcone.

L’affare derivante dalla costruzione della diga Garcia, però, non riguarda solo i terreni e Francese si rese conto subito che c’era moltissimo altro denaro di cui appropriarsi. Era quello derivante dai subappalti, dalle forniture di cemento, pietrame e quant’altro, da posti di lavoro da distribuire, da mezzi meccanici da affittare. Questo intreccio di appetiti e ingordigia lasciò sul terreno una dozzina di morti e una scia di attentati. E fu in quell’occasione che Mario Francese dettagliò come, dietro la sigla della misteriosa società che si chiamava Risa, si nascondesse Salvatore Riina.

Questa èuna storia che s’intreccia da un lato con i traffici e gli interessi delle famiglie mafiose di Castelvetrano e di Corleone e dall’altro con le indagini che il giudice Cesare Terranova svolse assieme al maresciallo Lenin Mancuso e con l’inchiesta di Mario Francese sulla diga Garcia. E proprio in quelle inchieste Mario Francese cita l’impresa milanese Lodigiani, la Pantalena, la Garboli e in particolare la Saiseb, l’impresa con sede centrale a Roma che, conosciuta a Castelvetrano per il famoso contenzioso di oltre 3 milioni di euro con il comune, giocava un ruolo importante nella ricostruzione del Belice, facendo lavori per vari miliardi di lire, giocando molto sulle perizie di variante, facendo molto lievitare i costi degli appalti.

L’inchiesta sulla diga Garcia è per Mario Francese lo scoop di una vita di giornalista. Dettagliata, circostanziata, piena di riferimenti puntuali, di fatti, di nomi e cognomi, la diga è l’ordito intorno al quale egli tese una trama fitta di personaggi, avvenimenti luoghi, indagini, testimonianze, rapimenti, assassini, appalti, burocrazia, mafia e politica.

Perché fu ucciso? Sicuramente perché fu il primo ad aver messo mano sul rapporto tra mafia e appalti e proprio per questo fu assassinato dalla mafia.

Negli anni Duemila, soprattutto grazie all’incessante lavoro del figlio Giuseppe che nella notte tra il 2 e il 3 settembre del 2002 si è tolto la vita schiacciato da un dolore che lo aveva accompagnato fin dal primo momento dopo l’omicidio del padre, invece, fu tutta la cupola a finire a giudizio, da Salvatore Riina a Francesco Madonia, passando per Michele Greco, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Matteo Motisi, Pippo Calò, Giuseppe Madonia imputati per essere stati i mandanti oltre a Leoluca Bagarella, esecutore materiale. 

“Mario Francese è morto perché ha detto ciò che non doveva dire, secondo l’ordine stabilito da Cosa Nostra, e ha scritto ciò che per i mafiosi non doveva essere scritto e portato alla coscienza di tutti”. Sono le conclusioni della requisitoria di Laura Vaccaro, la Pm del processo.

Roberto Greco