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Mafia, Messina, storia di una delle tante vittime innocenti

Dopo, nulla è stato più lo stesso.

Da quell’otto febbraio del 1996, da quando la notizia dell’uccisione di suo padre Antonio ha stravolto la sua vita, ogni idea serena di futuro, Andrea Falcone ha imboccato un lungo tunnel.

“Ci penso tutti i giorni alla morte di mio padre – dice -, è una ferita che non si chiuderà mai”.

Antonio Falcone, netturbino messinese ucciso a trentanove anni, è stata una di quelle vittime innocenti della mafia che lo Stato non ha riconosciuto subito, impiegando dieci anni per farlo. E segnando la vita della sua famiglia.

“Non abbiamo avuto – racconta Andrea Falcone – il sostegno di Istituzioni, né locali né nazionali, se non dopo il 2006. A sostenerci è stata solo la famiglia di mia madre”.

Una di quelle vittime invisibili, Antonio Falcone, non compresa negli elenchi conosciuti. Sulla sua vicenda non è stato fatto alcun film né i suoi familiari sono stati ospitati in tv.

Nessun riflettore che potesse in qualche modo alleviare il senso di solitudine che ha avvolto per anni la sua famiglia.

Era un bambino di otto anni, Andrea, quando il padre venne ucciso. E di quel giorno ricorda l’arrivo concitato di un amico dello zio e le urla della propria madre, che sotto shock scappò di casa per correre dai genitori.

Non l’avrebbe più vista, la madre, per due settimane, Andrea. E si sarebbe ritrovato da solo, come dentro una bolla, senza più la cognizione del tempo, seduto, immobile per ore.

Ricorda i Carabinieri che piombano dentro casa e la perquisiscono: cassetti svuotati, vestiti sul letto, mobili spostati.

“Hanno messo tutto sottosopra, non so cosa cercassero”.

Antonio Falcone, quel pomeriggio dell’otto febbraio di venticinque anni fa, era felice. Si era recato in una gioielleria per comprare un regalo alla moglie Letteria, che due giorni dopo avrebbe festeggiato il compleanno.

Mentre si trovava nel negozio un uomo armato aveva fatto irruzione nel negozio, sparando al gioielliere e ferendolo gravemente, ma senza ucciderlo. Poi aveva rivolto la pistola verso Antonio, che prima di cadere aveva cercato, come poteva, di difendersi.

Era morto soltanto perché sarebbe stato un testimone scomodo. Una vittima innocente della mafia.

Ma soltanto nel 2006 lo Stato lo aveva riconosciuto, concedendo alla sua famiglia i benefici ai quali aveva diritto e anche un estremo bisogno: un lavoro ai figli Andrea e Francesco e la pensione alla moglie.

“Non potevamo permetterci un avvocato nostro e ha seguito tutto un legale d’ufficio. Con i suoi tempi. Sono stati dieci anni di umiliazioni, di sacrifici, di cure, di vite distrutte. Eravamo una famiglia serena, vivevamo in venticinque metri quadrati di casa, ma ci bastavano. Dopo non eravamo più noi”.

Andrea ha dovuto seguire per tre anni un percorso di sostegno psicologico.

“Ero aggressivo con i miei compagni, li invidiavo perché avevano un padre, li volevo punire per quello che io non avevo più. La terapia mi ha fatto calmare ma non mi ha fatto superare il dolore. Ero molto legato a mia nonna, è stata per lungo tempo malata fino a spegnersi, l’ho accettato. Ma non la morte di mio padre”.

“Mi manca anche adesso – aggiunge – che ho 33 anni. Mi manca avercelo qui, anche solo per dieci minuti, per un consiglio, per scambiarci un’idea. Ci legava la passione per il calcio, mi accompagnava agli allenamenti. Quando è morto ho dovuto abbandonare la scuola calcio perché aveva un costo e la famiglia mi ha dovuto dire che non potevo più andarci. L’ho frequentata fino a completamento dell’anno pagato, ma non era più la stessa cosa: mentre giocavo con i miei compagni, guardavo tutti i papà, ma non c’era il mio”.

“A otto anni – spiega, amaro – devi capire perché non puoi più fare una cosa che ti piace: il calcetto o la fettina di carne a cena. Il livello era questo”.

A scuola è stato anche vittima di bullismo, Andrea.

“Dopo le medie – ricorda – mi ero iscritto nell’Istituto Bisazza in una classe di trenta allievi: ero l’ unico maschio e non potevo permettermi bei vestiti. Le ragazze mi prendevano in giro. Mi assentavo in continuazione per lavorare, al mercato rionale o nei cantieri o dal gommista, volevo guadagnare e sentirmi al loro livello. Dopo due bocciature ho abbandonato”.

Andrea, che ha preso il diploma in una scuola serale, adesso sta pensando alla laurea.

E’ sposato, lavora in un ufficio dell’Arta, ha anche comprato casa e continuerà a convivere con i suoi ricordi più bui.

Tra i più brutti quello che lo riporta al Natale 1996, il primo senza suo padre.

“Rievocarlo – dice – fa un male indescrivibile. Mia nonna ci aveva convinti a passarlo da lei. Ma sarebbe stato meglio se fossimo rimasti a casa nostra: alle nove a dormire”.

L’autore dell’omicidio è stato a suo tempo arrestato, ed è anche diventato collaboratore di giustizia.

“Alle varie udienze che si sono tenute, per volere di mia madre, non abbiamo mai presenziato. Non so cosa provo per quell’uomo che ormai è morto. So però che nel mio cuore non ho spazio per l’odio”.

Lina Bruno