Cronaca

Mafia, Palermo, nuovo colpo alla “famiglia” del Borgo Vecchio

Nuovo colpo alla famiglia mafiosa del Borgo Vecchio a Palermo.

Questa mattina, su delega della Dda, i Carabinieri del comando provinciale hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip nei confronti di quindici indagati accusati a vario titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, traffico di sostanze stupefacenti, furti, ricettazione ed estorsioni, tutti reati aggravati dal metodo mafioso, e di sfruttamento della prostituzione.

Quindici misure cautelari

Per uno è stato disposto il carcere, per dodici i domiciliari e per altri due l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

In carcere è finito Salvatore Bongiorno, di 53 anni, ai domiciliari a Palermo sono finiti Gianluca Altieri, di 26, Carmelo Cangemi, di 31, Francesco Paolo Cinà di 29, Saverio D’Amico di 50, Nicolò Di Michele, di 31, Davide Di Salvo, di 37, Vincenzo Marino, di 56, Pietro Matranga, di 33, Francesco Mezzatesta, di 21, Emanuel Sciortino, di 32.

Ai domiciliari in provincia di Napoli, infine, Giuseppe Pietro Colantoni, di 30 anni.

Salvatore Bongiorno
Gianluca Altieri
Carmelo Cangemi
Francesco Paolo Cinà
Giuseppe Pietro Colantonio
Saverio D’Amico
Nicolò Di Michele
Davide Di Salvo
Vincenzo Marino
Pietro Matranga
Francesco Mezzatesta
Emanuel Sciortino

Resilienza due e la riorganizzazione del clan

L’operazione, scattata dopo le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca e denominata “Resilienza due”, costituisce il prosieguo del blitz che, il 12 ottobre scorso, aveva portato al fermo del presunto nuovo reggente della famiglia mafiosa, Angelo Monti, che, secondo i Carabinieri del Nucleo operativo, aveva riorganizzato il clan affidando posizioni direttive a suoi uomini di fiducia.

Tra questi il fratello, Girolamo Monti, Giuseppe Gambino, Salvatore Guarino e Jari Massimiliano Ingarao.

Gli imprenditori si sono ribellati al pizzo

Molti imprenditori- il particolare è emerso nel corso della prima tranche dell’inchiesta – si sono ribellati al pizzo e hanno collaborato con le autorità e contribuito a far arrestare gli estorsori.

La “funzione sociale” della mafia

Questa seconda tranche dell’indagine ha svelato il controllo capillare del territorio da parte della “famiglia”.

I mafiosi continuano a rivendicare, con resilienza, una specifica “funzione sociale” attraverso alcune manifestazioni tipiche come la gestione delle feste rionali, l’organizzazione dei traffici di stupefacenti (funzionali a rimpinguare la cassa del clan) e la gestione di alcuni gruppi criminali che gestiscono i furti di veicoli e i cosiddetti conseguenti cavalli di ritorno (le richieste di soldi per la restituzione della refurtiva), anch’essi funzionali ad alimentare le casse della cosca.

Pacieri negli scontri tra tifosi rosanero

Dalle indagini è emerso che i boss hanno un ruolo nella risoluzione di alcune controversie sorte all’interno dei gruppi organizzati della tifoseria del Palermo Calcio.

Clan tornati al business della droga

Le indagini hanno accertato anche che il clan era tornato al business degli stupefacenti organizzando un florido traffico di droga.

Angelo Monti avrebbe delegato l’intero settore delle attività illecite legate alla droga al nipote Jari Massimiliano Ingarao e quest’ultimo, nonostante fosse sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, avrebbe organizzato e coordinato tutte le attività, trovando le sostanze stupefacenti in Campania attraverso corrieri e rifornendo le piazze di spaccio del quartiere.

Delegava, a seconda dei ruoli, i propri fratelli Gabriele e Danilo, Marilena Torregrossa, Carmelo Cangemi, Francesco Paolo Cinà, Saverio D’Amico, Davide Di Salvo, Giuseppe Pietro Colantonio, Salvatore La Vardera, Francesco Mezzatesta, Giuseppe D’Angelo, Nicolò Di Michele, Gaspare Giardina, Gianluca Altieri e Vincenzo Marino.

Anche bande di ladri di biciclette

Le indagini hanno accertato anche che la capacità di dominare il territorio della cosca arrivava fino al punto di controllare i ladri di biciclette o di moto che, oltre ad essere assoggettati alla “autorizzazione” di Cosa nostra, dovevano destinare al clan mafioso parte dei proventi della ricettazione o della restituzione ai proprietari della refurtiva con il cosiddetto metodo del “cavallo di ritorno”.

Le indagini hanno fatto emergere un’autonoma organizzazione criminale specializzata in questi furti e completamente sottomessa a Cosa nostra.