“Ha chiesto scusa, si è pentito di ciò che ha fatto”. Lo afferma l’avvocato Giovanni Giuca, difensore del ventisettenne di Rosolini, in provincia di Siracusa, indagato per violenza privata aggravata nei confronti della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a cui ha inviato sui social minacce di morte, estese anche alla figlia del premier, legate al timore di perdere il reddito di cittadinanza.
“Il mio assistito – dice ad AGI l’avvocato Giuca – ha sempre svolto lavori saltuari, tra cui le consegne delle pizze, e ha un passato contrassegnato da problemi, ma ha commesso un grave errore di cui ha compreso la portata. Lui percepisce attualmente il reddito di cittadinanza, ora vedremo cosa accadrà”.
Il tono e il contenuto dei messaggi è allarmante. “Se togli il reddito ammazzo te e tua figlia”. “Ci vuole la morte di lei e sua figlia”. “Veramente attenta, finiscila cò sta cosa di togliere il reddito di cittadinanza sennò ti ammazzo ma lo capisci?”.
In particolare, gli operatori del Servizio Polizia Postale di Roma avevano rilevato sull’account ufficiale Twitter del Presidente del Consiglio la pubblicazione di messaggi di minacce di morte finalizzati ad evitare l’eliminazione del reddito di cittadinanza.
Nonostante l’utente utilizzasse uno pseudonimo, le attività tecnico-investigative hanno permesso l’identificazione dell’uomo.
Gli operatori specializzati del Centro di Sicurezza Cibernetica Sicilia Orientale della Polizia Postale e della locale Digos hanno proceduto al sequestro di apparecchiature informatiche e dell’account social utilizzato.
La polizia ha disposto il sequestro del telefonino e il pc nella disponibilità del 27enne che è chiuso in casa.
Il caso in questione, pone la questione e chiedersi: è reato augurare la morte sui social? Cerchiamo di fare il punto della situazione alla luce delle più recenti pronunce della giurisprudenza.
Il reato scatta solo quando si divulgano, sui social network, nei blog e su Internet in generale, frasi che incitano alla discriminazione o a commettere violenze per motivi religiosi, etnici o razziali. A prevederlo è la cosiddetta legge Mancino (legge 205/93). Si tratta peraltro di reati procedibili d’ufficio, che non richiedono la querela della vittima.
Secondo la Cassazione, il malaugurio non è reato. E questo perché le conseguenze dannose per la vittima non dipendono dall’agente. Il nostro diritto non è superstizioso e sa bene che, se anche si augura disgrazia e sfortuna a una persona, ciò non è sufficiente a far verificare tali eventi.
Quando invece, dietro l’augurio, si nasconde una minaccia velata allora le cose cambiano radicalmente. Facciamo un esempio pratico, tratto purtroppo dalla vita di tutti i giorni.
Dire «Ti auguro di morire» non è illecito perché la morte, almeno così come configurata da chi parla, è sempre quella naturale. Lo stesso dicasi «Spero che tu venga investito da un’auto», «Ti auguro di spendere tutti i tuoi soldi in medicine», «Devi prendere una brutta malattia» e così via.
Dire invece «Prima o poi ti ammazzo», «Ti investo», «Non sai che ti faccio», «Ti riduco a brandelli» configura invece il reato di minaccia perché, in questo caso, l’evento – ossia la morte o le lesioni fisiche – viene fatto dipendere proprio da un comportamento volontario dell’agente.
Non conta quindi che, dietro la frase violenta e malaugurale, vi sia una violenza psicologica. Il destinatario delle parole deve essere in grado di percepire l’assoluta innocuità delle stesse.
La minaccia scatta solo quando l’evento dipende dalla volontà dell’agente e non da fattori esterni, come potrebbe essere una malattia o un incidente stradale. E secondo la Cassazione, il semplice odio non è un reato.
Ripercorrendo le stesse parole della Suprema Corte, «augurarsi la morte di un’altra persona è certamente manifestazione di astio, forse di odio» ma è «penalmente irrilevante», poiché violare «il precetto evangelico di amare il prossimo come sé stessi» non ha «sanzione penale». Leggi sul punto “Augurare morte, disgrazia e sfortuna è reato?“.
Augurare la morte non può neanche configurare l’ormai abrogato reato di ingiuria, perché tale condotta non costituisce un’offesa contro l’altrui reputazione.