Cultura

Cinema, Quentin Tarantino e la favola di Hollywood

C’ERA UNA VOLTA A… HOLLYWOOD
Regia di Quentin Tarantino. Con Leonardo Di Caprio (Rick Dalton), Brad Pitt (Cliff Booth), Margot Robbie (Sharon Tate), Al Pacino (Marvin Shwarz)
Usa 2019, 145’.
Distribuzione: Sony Pictures Italia/Warner Bros Pictures Italia

Nel 1969, l’anno in cui si svolgono le vicende narrate in “C’era una volta a… Hollywood”, Quentin Tarantino aveva sei anni. Forse bisognerebbe partire da questo assunto per leggere in maniera ancora più approfondita quello che il regista ha definito il suo nono e penultimo film. Senza utilizzare schemi psicoanalitici né applicare etichette di autobiografismo (anche perché sarebbero senz’altro fuori luogo), pure la rappresentazione di quegli anni sembra essere venuta fuori dalla mente di un bambino che interpreta il mondo senza far riferimento ai temi adulti della politica, dell’economia, delle evoluzioni sociali, ma come una serie di simboli tra di loro collegati e mitizzati, che elaborati in un racconto non fanno altro che costruire il binomio su cui si è consolidata nel tempo la poetica del nostro: cinema e violenza.

Complesso e stratificato, come quasi tutte le ultime sceneggiature di Tarantino, il film procede nella prima parte per aneddoti e rimandi, lavorando sulla presentazione e definizione dei due personaggi principali (Rick Dalton, attore muscolare sul viale del tramonto e Cliff Booth, sua controfigura guascona e attaccabrighe), su una raffigurazione d’ambiente molto seducente e nostalgica e su un infinito gioco di citazioni e autocitazioni cinematografiche. È tutto molto divertente, condito peraltro da una sontuosa colonna sonora, e quasi non si comprende come pian piano il film stia costruendo senso in maniera comunque inattesa.

Sempre ricoperta da ampi strati di graffiante ironia e da overdosi di cultura pop, qui la strisciante natura conservatrice di Tarantino salta fuori nella maniera più evidente (il finale sovversivo in questo senso è forse la scelta più politica di tutto il suo cinema), ma più che una dichiarazione di appartenenza ricorda il gioco di un bambino che con la fantasia prova a ricostruire il suo mondo di certezze, ora frantumato dal veleno sociale del progresso.

Voto: ☺☺☺☺1/2