Olimpiadi

Parigi 2024, Giochi olimpici teatro di tenacia e resistenza

PARIGI – La Senna in questi giorni è teatro delle Olimpiadi 2024, ricche di sport e competizioni tra le nazioni ma anche cariche di bellezza e di storie di resistenza, sia individuale che collettiva. I Giochi olimpici di quest’anno, in modo particolare, si inseriscono in un quadro internazionale faticoso, dovuto agli atroci conflitti su scala internazionale che influenzano, inevitabilmente, gli atleti provenienti dai luoghi di guerra. Ma esistono storie di speranza, che si incontrano, ad esempio, ai bordi di un ring.

La storia di Abu Sal

E’ il caso del pugile palestinese Waseem Abu Sal, uno dei due portabandiera della squadra olimpica, ha indossato una camicia bianca con ricamati jet che sganciano bombe sui bambini che giocano a calcio durante la cerimonia di apertura dei Giochi di Parigi. “Questa camicia rappresenta l’immagine attuale della Palestina”, ha spiegato, aggiungendo di aver scelto di indossarla per denunciare che “i bambini che vengono martirizzati e muoiono sotto le macerie, i bambini i cui genitori vengono martirizzati sono lasciati soli senza cibo né acqua”.

Vent’anni, il pugile Abu Sal vive nella Cisgiordania occupata e non ha potuto prepararsi con il suo allenatore al Cairo a causa delle restrizioni israeliane. Citato ad Arab News, Jibril Rajoub, presidente del Comitato olimpico palestinese, ha detto di aver verificato con il comitato organizzatore delle Olimpiadi di Parigi se la maglietta di Abu Sal violasse i regolamenti olimpici. “L’hanno approvata – ha spiegato – perché è un messaggio di pace, per attirare l’attenzione contro la guerra, contro l’uccisione. Questo rispetta la Carta olimpica”. Storie di dolore e privazione, che però trovano a Parigi un “palcoscenico” privilegiato: proprio dove tutti i riflettori del mondo sono puntati, si riaccende l’attenzione sulle speranze di pace e sulla forza di chi – tramite le proprie passioni – ha avuto la tenacia di andare avanti.

Il riscatto di Muna Dahouk

E’ stato così anche per l’atleta della Squadra Olimpica Rifugiati, Muna Dahouk: è cresciuta immersa nel judo, ma due colpi duri – la guerra in Siria e la morte del padre – l’hanno costretta ad abbandonare questo sport per nove anni. Ora, mentre partecipa alla sua seconda Olimpiade, sta recuperando il tempo perduto. “Sono cresciuta a Damasco in una famiglia di judoisti: i miei primi passi sono stati sul tatami”, ha raccontato la judoka. “Mio padre era un insegnante. Anche tutti e tre i miei fratelli facevano judo. Combattevamo molto. È stata un’infanzia fantastica. Tanto sport, è stato grandioso. Amavo il judo. È diverso, duro ma divertente. Crescendo impari il rispetto e come essere una brava persona. È stata una cosa positiva per tutti noi. L’ho fatto fino a 15 anni, ma poi ho dovuto smettere per studiare, e poi è iniziata la guerra”.

Dopo il 2010, la vita in Siria è diventata incerta e pericolosa. “Ci spostavamo molto. La nostra zona era bombardata, cercavamo di trovare un posto sicuro. Nel 2015 ci siamo trasferiti in un’altra città, vicino a Damasco. Non era completamente sicuro, ma andava bene. Abbiamo preso una nuova casa e ci siamo rimasti. Mi sono laureato in un istituto commerciale e bancario, ma non ho trovato lavoro da fare con il mio diploma. Ho trovato lavoro come insegnante di nuoto, ho insegnato ai bambini e mi sono allenato nella scherma”. In quel periodo il judo era lontano dai suoi pensieri. “Mio padre è morto nel 2015 e, dopo la sua morte, ho pensato che non ci sarebbe stato più judo”, ha spiegato. “Non potevo immaginare di praticarlo senza di lui. Il judo era l’ultima cosa a cui pensavo. Era finita”.

Quando alla madre fu concesso asilo nei Paesi Bassi insieme ai suoi due fratelli più piccoli, Dahouk rimase in Siria con la sorella maggiore finché non trovarono un modo per raggiungerli. “Aspettavamo solo di arrivare nei Paesi Bassi. La vita in Siria era così difficile. Dovevamo viaggiare per andare a lavorare nel centro di Damasco. L’esercito siriano stava combattendo con altri gruppi e ho visto molte cose terribili, come un cadavere sul ciglio della strada. Non sentivo troppa paura dentro di me. Era solo la vita”.
Dahouk è arrivata nei Paesi Bassi nel 2019 ma, non avendo praticato il judo per nove anni, al suo arrivo aveva altri progetti. “Volevo studiare, fare scherma e nuoto. Non c’era il judo”, ha detto. “Nei Paesi Bassi c’era un uomo che era con mio padre quando ero giovane. Era un bravo judoka, sua moglie era una judoka. Avevano un progetto per far arrivare più judoka donne dalla Siria, e sapevano che lo facevo anch’io. Avevano bisogno di più ragazze. All’inizio ho detto di no. Dopo dieci anni senza allenamento, è troppo dura. Per il judo, per diventare professionisti, devi allenarti ogni giorno. Avrei dovuto ricominciare da zero. Il mio corpo se n’era dimenticato. Lui disse: ‘prendi due giorni per pensarci’. Alla fine ho detto ok, facciamolo. Ho ricominciato ad allenarmi.

All’inizio eravamo terribili”, ma Dahouk è migliorata costantemente, la memoria muscolare è tornata. È stata inclusa nell’IJF Refugee Team al Budapest Grand Prix 2019 e ha partecipato al Paris Grand Slam e al Dusseldorf Grand Slam nel 2020. Ha poi combattuto nella categoria -63 kg per la squadra olimpica dei rifugiati del Cio a Tokyo 2020. È stata un’esperienza trasformativa. “Sono stati i giorni migliori, un ricordo speciale. Sono così emozionata per Parigi e penso che sarà fantastica. Il team dei rifugiati è l’idea perfetta, aiuta a rompere gli stereotipi e a sfatare ciò che la gente pensa dei rifugiati. Quando qualcuno dai Paesi Bassi mi chiede da quanto tempo vivo qui, cosa faccio e gli rispondo che sono un lottatore di judo nella squadra olimpica dei rifugiati del Cio, nella sua mente qualcosa cambia. Amo così tanto questo paese. Le persone sono la cosa migliore”.

Un “cyber tedoforo”

Alle Olimpiadi 2024 ci sono, però, anche storie di riscatto personale: atleti che nello spirito sportivo superano i propri limiti e danno esempio di tenacia e orgoglio a tutto il mondo. è stato, infatti, un privilegio frutto della collaborazione tra la volontà di uno sportivo e i progressi della scienza e della medicina, che abbiamo potuto assistere alla performance del “cyber tedoforo”, Kevin Piette.

Kevin Piette, 36 anni, sorride e saluta mentre percorre la strada fra due ali di folla. La sua mano sinistra stringe la fiamma olimpica dei Giochi di Parigi 2024. L’atleta è un tedoforo speciale, un “cyber tedoforo” lo hanno definito. Perché lui, tennista diventato paraplegico a seguito di un incidente stradale 11 anni fa, indossa un esoscheletro all’avanguardia, prima volta nella storia dei tedofori. Il video del suo passaggio a Poissy ha commosso ed esaltato web e social in tutto il mondo. “Non dimenticherò mai questo giorno”, ha commentato lo stesso Piette su Instagram. “E’ con orgoglio e onore che ho potuto portare questa fiamma che rappresenta tante cose belle: impegno, sport, innovazione, inclusione, speranza, futuro”, elenca nel suo post, ringraziando per la “giornata incredibile ed emozionante” vissuta.

Piette dopo l’incidente “non ha gettato la spugna”, si legge sul sito web ufficiale delle Olimpiadi di Parigi. è tornato allo sport “come paratleta” ed è diventato “un ‘pilota’ di esoscheletro per un’azienda francese che sviluppa un dispositivo robotico per camminare” che è Wandercraft, nata nel 2012 dall’iniziativa di tre ingegneri. Lo strumento a cui lavorano è dotato di sensori e di motori posizionati all’altezza di fianchi, ginocchia e caviglie, e permette alle persone in sedia a rotelle di alzarsi in piedi e di camminare e affrontare una riabilitazione intensiva e personalizzata per massimizzare le possibilità di recupero dopo lesioni gravi, e prevenire la comparsa di complicanze da perdita di mobilità. Un telecomando permette di controllare i movimenti dell’esoscheletro. Piette è stato uno dei primi collaudatori di questa azienda e ha contribuito al miglioramento del dispositivo robotico, prendendo anche parte a “cybathlon”, si legge, cioè a competizioni in cui persone con disabilità usano tecnologie assistive.

“Attualmente utilizzato nella riabilitazione, è in fase di sviluppo una versione personale dell’esoscheletro per consentire una maggiore indipendenza a casa. Portando la torcia olimpica – hanno concluso gli organizzatori dei Giochi – Kevin ispira le persone a impegnarsi nello sport e a promuovere l’innovazione per chi convive con disabilità”. Sono diverse le aziende e i centri – anche in Italia – che lavorano a dispositivi simili, robot indossabili. Ognuna di queste ha i suoi super piloti. Piloti come per esempio Alex, 49 anni di Bologna, e Davide, 47enne di Maranello, che sono stati fra i primi pazienti con lesione midollare ad aver sperimentato il robot indossabile di Inail e Istituto italiano di tecnologia (Iit), chiamato Twin (presentato a Milano a febbraio di quest’anno).

Piette ha mostrato al mondo le potenzialità che può avere un esoscheletro all’avanguardia, accendendo i riflettori di Parigi 2024 su quello che si può ottenere quando “impegno sportivo, desiderio di una società più inclusiva e spirito imprenditoriale e innovativo” si fondono. E a proposito di impegno sportivo, un’altra storia ha ricevuto molte attenzioni: quella del 33enne Matt Dawson che si è infortunato l’anulare della mano destra dopo essere stato colpito da una mazza da hockey e ha scelto la procedura di amputazione per accelerare il suo recupero. Una decisione sofferta quella del giocatore australiano di hockey su prato, che ha scelto di farsi amputare parte del dito per poter prender parte ai Giochi. L’impatto della mazza da hockey gli ha reciso quasi completamente la parte superiore del dito, mettendo a repentaglio i suoi sogni olimpici. “È stato piuttosto significativo l’infortunio al dito. Quando le persone intorno a te lo vedono e non dicono niente, capisci che è piuttosto grave – ha raccontato. -Le cose si sono mosse molto rapidamente. E tutto quello che ricordo è che qualcuno ha detto: ‘Dobbiamo vedere un chirurgo plastico’”.

Al due volte olimpionico sono così state date due opzioni: i chirurghi avrebbero potuto provare a ricostruirgli il dito inserendovi un filo metallico, il che avrebbe significato quattro-sei mesi di riposo per riprendersi completamente e perdere le Olimpiadi, oppure avrebbero potuto rimuovere la parte interessata del dito. Dawson, che faceva parte della squadra nazionale vincitrice della medaglia d’argento a Tokyo 2020, ha optato per la seconda opzione e si è amputato la parte interessata del dito per assicurarsi un’altra possibilità di gloria olimpica e rappresentare la sua nazione.