Emergono i dettagli dell’operazione “Landayà” contro il traffico di esseri umani, eseguita nelle scorse ore a Catania con la collaborazione delle forze dell’ordine di diverse aree d’Italia.
La Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Catania – ha coordinato le attività svolte dalla Polizia di Stato, che ha portato al fermo di diverse persone.
I destinatari del provvedimento di fermo di indiziato di delitto sono:
Le accuse a carico degli arrestati dell’operazione “Landayà” sono: associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravata dall’aver agito in più di dieci persone, e dei reati-fine di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina pluriaggravati dall’avere agito in più di tre persone in concorso tra loro, di avere commesso il fatto al fine di trarne profitto anche indiretto e dalla transnazionalità.
Le indagini, sfociate nell’emissione del citato decreto di fermo, sono partite dalla vicenda relativa a una minore straniera non accompagnata giunta lo scorso 25 gennaio al porto di Augusta, collocata in una struttura sita nel Catanese ma fermamente intenzionata a raggiungere la Francia seguendo le indicazioni avute in Libia da una donna che l’aveva avvicinata mentre si trovava in attesa di imbarco e che le si era presentata come sorella di un soggetto che, in Italia, si occupava di far completare il lungo viaggio dal Paese di origine sino alla Francia passando per l’Italia (si tratterebbe di Kadouno).
La minore, giunta in Italia e collocata in struttura per minori stranieri non accompagnati, se ne è allontanata affidandosi alle cure del soggetto indicatole in Libia e – grazie all’operato di quest’ultimo e di altri indagati – è riuscita a fuggire per tre volte dalle comunità in cui veniva ospitata sino a raggiungere il territorio francese.
L’impegno investigativo dedicato alla vicenda di questa minore, caratterizzato da attività di tipo tradizionale e tecnico, ha permesso da subito di focalizzare l’attenzione su alcuni soggetti di cittadinanza guineana e ivoriana coinvolti nel trasferimento in Francia della ragazza. Partendo da questi soggetti, gli inquirenti interessati all’operazione “Landayà” sono riusciti a individuare un articolato sodalizio criminale di matrice straniera, a carattere transnazionale, formato da più cellule operative in Africa (Libia, Guinea, Costa d’Avorio, Tunisia e Marocco), in Italia (a Genova, Torino, Asti, Cuneo e Ventimiglia) e in Francia, dedito al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in favore di una clientela (donne, uomini, bambini e addirittura neonati) che, dietro pagamento di somme di denaro (che oscillava dai 200 ai 1.200 euro), si affidava agli odierni arrestati, specializzati nella “gestione” dei viaggi per raggiungere altri Paesi dell’Unione Europea, in particolare in sconfinamenti verso la Francia.
Le indagini relative all’operazione “Landayà”, coordinate dall’Ufficio catanese ed eseguite dalla Squadra Mobile di Catania Sezione Criminalità Straniera e Prostituzione ha consentito di acquisire, allo stato degli atti, elementi che dimostrerebbero come i fermati, per lo più francofoni, della Guinea e Costa d’Avorio, sarebbero in grado di garantire al migrante la realizzazione del progetto migratorio nella sua interezza, dal Paese di origine a quello di destinazione, attraverso Paesi di mero transito (come l’Italia) dietro compenso corrisposto alle diverse persone incaricate di curare ogni singola tratta.
Per il traffico di migranti verso la Francia venivano utilizzati treni e macchine (più raramente sentieri di montagna); gli indagati dell’operazione “Landayà” offrivano tutti i servizi necessari allo “sconfinamento”: dall’organizzazione dello spostamento del migrante ai centri d’accoglienza per ospitare i migranti, dalla fornitura eventuale di documenti falsi (anche di tipo sanitario come falsi Green Pass, falsi esiti del test Covid-19 e patenti di guida) alla presa in carico del migrante una volta raggiunto sul luogo in prossimità del confine, dall’offerta di ospitalità nelle more, comprensiva di vitto e alloggio, alla reiterazione dei tentativi di sconfinamento e alla presa in carico a opera di altri membri una volta raggiunta la Francia.
Il sodalizio risultava avere struttura fluida perché capace di adattarsi ma in ogni caso ben definita quanto ai ruoli: non vi era evidentemente un capo all’apice, ma quattro capi/organizzatori ciascuno per ognuno dei gruppi, quattro entità collettive operanti con una organizzata gestione di risorse umane e materiali, stabilmente a disposizione le une delle altre e sinergicamente attive con metodi illeciti, con la finalità della commissione di plurimi delitti rientranti in un unico superiore progetto associativo che dall’Italia passava soltanto, in quanto iniziava all’estero e terminava all’estero.
Nell’ambito dell’operazione Landayà è stata individuata una struttura complessa e articolata del sodalizio, composto fondamentalmente da tre cellule:
Secondo quanto emerso dalle indagini dell’operazione Landayà, accanto ai gruppi citati operavano altri due sodali “cerniera”: si tratterebbe di Ali Sangarè e un altro soggetto, irreperibile. I due non sarebbero inquadrabili definitivamente come soggetti alle dipendenze esclusive di uno dei vari leader o come in collaborazione con uno solo dei gruppi in particolare, ma stabilmente disponibili a intervenire nella catena di azioni necessarie a garantire le azioni di sconfinamento dei migranti rivoltisi al sodalizio.
Nel corso delle investigazioni emergeva una fibrillazione – scaturita ragionevolmente per contese concernenti il controllo del territorio di riferimento – tra antagonisti di diversa cittadinanza (da una parte cittadini nigeriani, dall’altra i francofoni), dediti al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina via terra, fibrillazione che potrebbe avere originato una violenta aggressione ai danni di uno dei destinatari del decreto di fermo, allo stato irreperibile.
Altri elementi sono emersi dagli accertamenti patrimoniali svolti, che hanno permesso di portare alla luce un considerevole giro d’affari: sebbene la maggior parte dei movimenti dei flussi di denaro avvenisse in contanti (soprattutto per la clientela agganciata alla spicciolata in prossimità dei confini) e un’altra parte attraverso sistemi basati sulla mera fiducia, definita dai monitorati con il termine “Landayà” (da qui il nome dell’operazione), l’analisi delle PostePay di alcuni degli indagati ha consentito di attestare che uno dei sodali aveva effettuato l’acquisto online di titoli di viaggio in un limitato arco temporale per un ammontare di circa 26.000 euro.
L’analisi dei flussi di denaro relativi alle carte PostePay utilizzate ha restituito per ciascuna un saldo pressoché pari a zero: le carte venivano infatti utilizzate quali meri contenitori precari, con transazioni complessivamente ammontanti a 800.000 euro solo considerando le carte intestate a diversi indagati e dovendosi, comunque, tenere in considerazione che spesso nel settore dello smuggling e del trafficking, i flussi di denaro di rilievo avvengono utilizzando soggetti apparentemente non legati agli autori del reato per evitare che operazioni di movimentazione di denaro anomale, reiterate e di un certo rilievo, possano esser foriere di attenzione investigativa.
Le indagini relative all’operazione “Landayà” hanno permesso anche di registrare numerose conversazioni espressamente concernenti la bellezza e le fattezze fisiche delle migranti di sesso femminile gestite dal sodalizio e in alcuni casi anche di rilevare che le stesse, oltre al pagamento in denaro, corrispondevano prestazioni sessuali, anche quando viaggiavano con figli minori, così potendosi apprezzare ancora una volta l’estrema vulnerabilità delle migranti, esposte ai rischi di sfruttamento da parte di trafficanti privi di scrupoli.
Sempre avuto riguardo alle vulnerabilità, in alcune occasioni sono emersi movimentazioni illecite di bambini in tenera età, accompagnati dalle madri e talvolta da esse momentaneamente affidati a un componente del sodalizio, e la strumentalizzazione della condizione di incertezza del migrante. La vittima del traffico di esseri umani, infatti, veniva in qualche modo anche confuso e catturato da una falsa attenzione ai suoi bisogni.
In tal senso varie le strategie psicologiche sperimentate e finalizzate alla massimizzazione dei guadagni derivante dal numero sempre maggiore di migranti che si rivolgevano al sodalizio. I fermati, giunti in Italia a partire dal 2016, avrebbero dimostrato una non comune expertise criminale tanto che avrebbero affinato le tecniche di interazione con la clientela sintetizzabili, tra l’altro, nelle parole utilizzate da uno di essi in un dialogo monitorato: “Questa è una cosa che ti ho detto mille volte!!! Quando parli con un cliente devi per prima cosa farlo partire, guidandolo da dove si trova, sino a farlo giungere a Milano o a Ventimiglia… poi dopo gli puoi chiedere in quale città vuole andare d infine gli dici il prezzo! Così hai la certezza di poter trovare un accordo! Già non arrivano tante persone e quelle poche che arrivano con il tuo modo di lavorare li fai allontanare!”.
In sostanza, la strategia consisteva nell’imbrigliare il migrante offrendogli quanto da esso atteso e anche di più ed in fretta, portandolo a un punto di avanzamento delle operazioni tale da rendergli impossibile il rifiuto del servizio. Tra l’altro alcuni degli indagati avrebbero approfittato in tal senso, del loro inserimento a vario titolo in strutture di accoglienza per migranti.
All’operazione di polizia denominata “Landayà”, che in lingua dioula significa “fiducia” (termine utilizzato durante le trattative con i migranti clienti) è stata data esecuzione con la collaborazione degli omologhi Uffici investigativi di Asti, Cuneo, Genova, La Spezia, Pavia, Rimini, Savona e Torino.
I 25 destinatari del decreto di fermo sono tutti di cittadinanza ivoriana e guineana (così come la maggior parte dei migranti da essi gestiti) sono in gran parte regolari sul territorio nazionale e otto di essi non sono stati rintracciati in quanto non presenti in Italia: gli indagati nei cui confronti è stata data esecuzione al decreto di fermo, dopo le formalità di rito, sono stati condotti nelle carceri dei territori interessati dall’esecuzione (otto diversi centri in Liguria e Piemonte).
Il quadro indiziario raccolto, pur in una fase che non ha ancora consentito l’intervento delle difese, ha poi permesso di richiedere e, in larga parte, di ottenere, dai competenti Giudici per le indagini preliminari, la convalida del provvedimento di fermo e l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere.