Cronaca

Da San Lorenzo a Resuttana, “amicizia” tra clan: i retroscena svelati dall’operazione Metus

Dall’ordinanza relativa all’operazione Metus, che ha portato alla custodia cautelare di 11 persone, emerge una connessione, basata su interessi mafiosi ed economici, tra la famiglia retta da Michele Micalizzi e quella di Resuttana retta da Salvatore Genova.

Gli incontri tra Michele Micalizzi e Giulio Caporrimo

Numerosi gli incontri tra Micalizzi, Giulio Caporrimo – già reggente del mandamento mafioso di San Lorenzo-Tommaso Natale -, Francesco Palumeri, reggente della famiglia mafiosa di Partanna-Mondello, poi temporaneamente succeduto al vertice dell’intero mandamento mafioso, e Antonino Vitamia, reggente della famiglia mafiosa di Tommaso Natale.

Nel corso di questi incontri riservati, grazie alle intercettazioni, furono affrontati alcuni contrasti d’interesse della consorteria mafiosa e numerose altre questioni in ordine alle quali Vitamia riteneva necessaria, nella sua qualità di vertice della famiglia mafiosa di Tommaso Natale, una ponderata riflessione: “Devo… assimilare… ti pare che ho il computer nella…”.

Da Resuttana a San Lorenzo, l’operazione Metus dopo “Resurrezione”

L’acquisto di “Gelato 2”, l’interconnessione con l’operazione Resurrezione e i rapporti tra i mandamenti. Dalle intercettazioni emerge come l’acquirente dell’attività commerciale “Gelato 2”, con l’intermediazione di Giuseppe Mesia, commercialista della famiglia di Resuttana, fosse la società “MAGI Srl”, sponsorizzata proprio da Michele Micalizzi. La valenza mafiosa della vicenda assume chiara evidenza nel passaggio in cui Salvatore Genova, figura apicale della famiglia mafiosa di Resuttana, dopo aver precisato di non essere disposto a “scambi di favori”, individuò il prezzo della compravendita in 75mila euro.

I due mandamenti – quello di Resuttana e quello di San Lorenzo, al centro dell’operazione Metus,- confinanti geograficamente ma gestiti da famiglie mafiose diverse – erano riusciti a trovare il giusto equilibrio che li ha portati alla collaborazione e non allo scontro, seppur nel rispetto dell’importanza dei relativi uomini di riferimento della mafia locale. Giuseppe Mesia, intercettato, ebbe a dire, precisando che Micalizzi non aveva titolo per esercitare la sua influenza sul territorio di Resuttana e che Salvatore Genova avesse un ruolo superiore “Eh! Lui è più alto di Michele! (incomprensibile) è più alto, quello qua non è nessuno!”, nonostante i due fossero “amici” e in contatto tra loro, “comunicano”.

Si tratta d’intercettazioni chiare e caratterizzate da un significato evidente e univoco, così come altrettanto espliciti erano i riferimenti in esse contenute ai confini territoriali dei due storici mandamenti di Cosa nostra, quello di Resuttana e quello di San Lorenzo-Tommaso Natale, dei quali Genova e Micalizzi costituivano autorevole espressione. Gli investigatori hanno anche appurato l’esistenza di una sequela di riunioni e contatti dai quali si comprendeva facilmente come fossero in corso segrete interlocuzioni tra Genova e Micalizzi, veicolate attraverso modalità riservate, finalizzate a celare le comunicazioni tra i due uomini d’onore.

I ristoratori denunciano le estorsioni

Nel mese di agosto 2021, il ristoratore Nabli Abderraouf, detto Rodolfo, gestore di un locale a insegna “Sapori del Golfo” a Sferracavallo, si è rivolto alla polizia giudiziaria, lamentando di essere vittima di continue imposizioni estorsive da parte di componenti della locale cosca mafiosa.

In occasione di uno dei contatti avuti con la polizia giudiziaria, Nabli avrebbe consegnato le immagini del sistema di videosorveglianza installato nel proprio locale che ritraevano Matteo Pandolfo, oggi indagato, indicato dallo stesso Nabli quale esattore della cosca, mentre riceveva dal ristoratore due banconote da 50 euro.

Il ruolo di Amedeo Romeo, il pizzo e i “cavalli di ritorno”

Dalle intercettazioni risulta evidente che Amedeo Romeo era il superiore gerarchico degli esattori che raccoglievano il “pizzo”, ordinando l’esecuzione di prelievi forzosi ai danni di tutti gli operatori presenti nella borgata di Sferracavallo, nessuno escluso, ma, al tempo stesso, aveva anche la facoltà di esentare qualcuno dall’imposizione mafiosa.

Si tratta di una vecchia consuetudine mafiosa. Prima rubano un bene, automobile o motocicletta, poi la ripropongono al proprietario in cambio di una somma di denaro. In caso di rifiuto del pagamento del cosiddetto “cavallo di ritorno”, il proprietario non sarebbe più entrato in possesso di quanto era suo.

L’ammontare di quanto richiesto, normalmente, si attestava intorno a una cifra di 700-800 euro ma, nel caso del veicolo probabilmente rubato dai ragazzi dello Zen, Rosario Gennaro, Giuseppe Guida e Francesco Nappa avrebbero concordato di chiedere la somma di 300 euro a Loredana D’Anna, proprietaria del veicolo. In realtà il valore dell’estorsione risulta essere di 320 euro, di cui 50 trattenuti da Rosario Gennaro. La rapidità con la quale si è esaurita la vicenda, nell’arco di appena 24 ore, offre un esempio dell’efficienza del circuito criminoso mafioso e del controllo esercitato sul territorio.

Operazione Metus, il tentato omicidio di Anello Cusimano

Il 27 gennaio 2022, l’attività di osservazione eseguita dalla polizia giudiziaria, mediante apparecchi di videoripresa installati in via Luigi Einaudi, ha consentito di monitorare alcune fasi del tentato omicidio di Anello Cusimano detto Emanuele, per opera del fratello Carmelo Cusimano, fatto accertato dalle investigazioni. Il gesto è ritenuto premeditato e si pensa che sia avvenuto con l’uso di un coltello che Carmelo Cusimano si era procurato.

La conferma, peraltro, arriva dalla stessa vittima, Anello Cusimano che, nel corso del video-colloquio carcerario intrattenuto, il giorno seguente al delitto, precisò che il fratello lo attendeva con un coltello dicendo “A te aspettavo… tanto” e indicando sia le caratteristiche dell’arma utilizzata – indica una lunghezza con le dita della mano destra sull’avambraccio sinistro e a seguire simula lo sferrare di una coltellata – sia le parti del corpo colpite dal fratello Carmelo. Risulta, oltre alla premeditazione, anche l’intento mortale proprio sulla base della posizione in cui erano inferte le coltellate e da una conversazione intercettata in cui lo stesso Carmelo Cusimano dice “no, no, no, no, no ci sono andato per ammazzarlo…” e che, ove non si fosse spezzata la lama del coltello, avrebbe colpito la vittima anche direttamente in testa “se non si rompe la lama del coltello… glielo appizzo in testa…”.