È in un contesto, in un fervore di opere e di pensiero, che Benedetto Cotrugli, spinto anche dalla peste che imperversa a Napoli, si ritira nel castello di Sorbo Serpico, presso Avellino, a scrivere il Libro de l’arte de la mercatura, con l’obiettivo di sistemare la sua grande esperienza come mercante e come collaboratore del sovrano di Napoli, inquadrarla con la sua vasta cultura e trasmetterla ai posteri in vivace volgare.
Cotrugli non è un apripista, come Albertano, è un profondo sistematore dei principi e degli uomini che, nei due secoli precedenti, hanno fatto grandi e magnifiche tante città italiane e, attraverso le stesse, hanno realizzato un importante sviluppo economico e un’imponente accumulazione di capitale, bellezze, pensiero. E molti di loro, soprattutto i grandi fiorentini, come Coluccio Salutati, ne sono già stati entusiasti cantori.
È dunque venuto il momento di affrontare i contenuti del Libro de l’arte de la mercatura e cercare di individuare se e quali dei suoi temi conservino interesse e attualità anche per noi, naturalmente dal punto di vista limitato del pensiero d’impresa. Prima di affrontare questi complessi temi, è però necessario soffermarsi su ciò che il trattato di Cotrugli non è e soprattutto non pretende di essere. Illustrerò questa problematica rifacendomi a una mia precedente esperienza del 1988.
Giorgio Fuà mi chiese di tenere una lezione sull’Economico di Senofonte all’Istituto Adriano Olivetti (Istao di Ancona).
Affrontai questo testo – del quale avevo sempre sentito parlare come di un trattatello modesto sotto il profilo sia filosofico sia letterario, sia economico – senza grande entusiasmo. La verità è che esso è sempre stato letto e criticato da letterati, filosofi, economisti generali che non conoscevano la materia del libro. Infatti l’Economico di Senofonte non è un testo di filosofia né di letteratura, né di economia generale. È un libro di management, il primo libro di management della storia occidentale e, come libro di management, è molto importante. Non posso trattare qui il commento che illustrai nel testo della lezione. Mi limito a riportare la conclusione dell’incontro tra i due protagonisti, il giovane imprenditore Iscomaco titolare di un’impresa agricola e il filosofo Socrate, su un tema cruciale: la differenza tra l’apprendimento della tecnica e l’apprendimento della capacità di guidare le persone.
Questa capacità è comune alle attività economiche e alle altre attività dell’uomo e ha qualcosa di prodigioso, che Socrate indica con la parola «divino». Anche questa capacità si può imparare, ma con un processo di apprendimento ben più lungo e complesso di quello necessario per imparare le tecniche: «A mio parere questa è la cosa più importante in ognuna delle attività umane e, quindi, anche nell’agricoltura. Tuttavia, per Zeus, io non dico affatto che anche questo si impara osservando o avendolo ascoltato una volta sola, ma affermo che per chi intende riuscire in questo c’è bisogno di educazione, di possedere una buona natura e, cosa più importante di tutte, di diventare divino. Non sono affatto convinto che questo bene, comandare a gente che obbedisca volentieri, sia del tutto cosa umana, ma mi pare divina; chiaramente è data a coloro che veramente sono iniziati alla virtù. Invece mi pare che il comandare tirannicamente, su gente che si ribella, gli dei lo impongono a coloro che ritengono di vivere come Tantalo nell’Ade, che si dice passi tutta l’eternità nel timore di morire una seconda volta».