PALERMO – È una delle massime testimonianze del modernismo fascista presenti in Sicilia. Un esempio di architettura del ventennio, nonché un simbolo di qualità costruttiva che va al di là di ogni valutazione stilistica. Il palazzo delle Poste di Palermo è un colosso che sfida il tempo.
Da ormai 90 anni, infatti, la sua possente struttura di calcestruzzo armato, rivestita di marmo grigio del monte Billiemi, alta come un palazzo di 10 piani e caratterizzata da 10 colonne frontali di 17 metri, campeggia sulla via Roma, l’asse che spacca il vasto centro storico di Palermo. Un traguardo celebrato con uno speciale annullo postale, nello stesso giorno, il 28 ottobre, in cui l’edificio destinato dal regime mussoliniano alla gestione e alla logistica del traffico postale venne inaugurato nel 1934, a dodici anni esatti dalla marcia su Roma. Ma soprattutto un momento all’insegna dell’arte, segnato dall’apertura, per l’occasione, degli ambienti più prestigiosi del palazzo.
Una storia che parte nel 1929 quando il governo fascista decide di affidare il progetto all’eclettico architetto Angiolo Mazzoni, che concepì un enorme corpo immobiliare completamente diverso dagli edifici circostanti, costruiti per lo più in calcare tufaceo. Dalla sua solenne inaugurazione avvenuta, dopo 5 anni di cantiere, il palazzo delle Poste di Palermo non ha mai cessato di stupire. Anzitutto attraverso i suoi volumi interni, segnata dall’esaltazione artistica dell’arditezza, della velocità e della modernità. Spazi, quelli delle ariose sale ubicate al terzo piano, dal soffitto alto 8 metri, alle quali fa da anticamera una saletta d’aspetto di grande impatto con le mura ricoperte da piastrelle di colore blu intenso. E che si raggiungono salendo la scenografica scala elicoidale realizzata con quattro tipologie di marmo: il Nero del Belgio, il cosiddetto Cipollino dell’Elba (dalle diverse intensità di verde), il Libeccio di Trapani e il rosso fiorito. Materiali pregiati che si ritrovano anche nelle grandi stanze del terzo piano. Tra queste, la Sala delle Conferenze quasi ipnotizza con il suo audace abbinamento di materiali eterogenei.
A confermarlo sono in particolare i dipinti di due tra gli artisti più originali di quell’epoca: Benedetta Cappa, la giovane e avvenente moglie di Filippo Tommaso Marinetti e Guglielmo Sansoni, il pittore che simulò la sua morte all’interno di una bara per rinascere artisticamente rinnovato nel futurismo, con lo pseudonimo di Tato. Cinque in tutto i quadri della Cappa Marinetti, a testimoniare, da una parte, con un grande trittico, l’era delle comunicazioni terrestri, marittime e aeree; e, sulla parete a fianco, per mezzo di altri due dipinti, quella del telefono e delle telecomunicazioni. Opere, che evocano la smisurata fiducia riposta all’epoca sui moderni mezzi di comunicazione. E che per questa ragione, alcuni anni fa, sono state temporaneamente richieste dal museo Guggenheim di New York, per una mostra dedicata all’aeropittura futurista.
Sempre nella stessa sala, due quadri di Tato raffigurano la scena del varo di un grande bastimento, raffigurato soltanto nella sua poppa con le due enormi eliche. E, a fianco, la tela dedicata al lavoro: una moltitudine di uomini e donne rappresentati che paiono muoversi all’unisono sotto una serie di strutture di forma squadrata. A conferire un ulteriore dinamismo agli arredi della sala delle conferenze, c’è inoltre una scultura che rappresenta Diana cacciatrice, realizzata dall’artista fiorentino Corrado Vigni.
Si passa poi alla Sala del Direttore, che ospita i dipinti murali in tempera di Piero Bevilacqua, artista ispirato dal miraggio avveniristico dei mass media. È qui che nel 1988 da un problema all’impianto elettrico originò un incendio che distrusse per intero la parete retrostante la scrivania direttoriale, anch’essa ornata da decorazioni pittoriche inneggianti al fascismo, sulla quale venne sistemato un rivestimento ligneo. Altro oggetto che in questa sala si distingue per la sua forma ardita, un panciuto portaombrelli in rame, che ricorda una grossa bomba inesplosa.
Un piccolo museo futurista, dunque, il palazzo delle Poste palermitano: “Festeggiarne i novant’anni significa accendere i riflettori su un edificio iconico – ha detto Roberta Chiesurin, direttrice della filiale Palermo 1 di Poste italiane –. Questo luogo non rappresenta solo un pezzo fondamentale del patrimonio architettonico della nostra azienda, ma fa parte della memoria storica di Palermo. Il nuovo annullo è un gesto per celebrare entrambe”.
Grazie all’associazione le Vie Tesori dal 2016 al 2018 il Palazzo delle Poste venne incluso nel ciclo di aperture e visite autunnali ai monumenti e agli spazi iconici della città. L’arrivo della pandemia indusse però la proprietà a fermare le visite. “Non è semplice rendervi compatibile la fruizione con l’esigenza di Poste italiane di lavorarci – ha detto Giampiero Cannella, assessore comunale alla Cultura – Stiamo discutendo su soluzioni che le contemperino”.