ROMA – Il testo unificato sulla parità salariale è legge. Il 18 novembre scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge 5 novembre 2021, n. 162. Con un finanziamento per il 2022 di 50 milioni di euro, la norma si pone l’obiettivo di ridurre le differenze di retribuzione tra uomo e donna. L’antico divario della retribuzione oraria si acuisce nelle mansioni dirigenziali. La legge si propone di:
– ridurre il gap retributivo di genere per mezzo di incentivi sotto forma di premi alle aziende che tendono a ridurre le discriminazioni
– ottimizzare il rapporto tra il tempo impiegato dalle donne a lavoro e la sfera personale e familiare.
Guardando il quadro generale si evince come il problema non sia solo italiano. A livello europeo, il gap salariale uomo-donna è stimato in media al 14,1 per cento. Un dato questo che misura la differenza tra i salari orari medi. La situazione peggiora decisamente nel caso in cui si prende in considerazione il divario retributivo complessivo di genere, includendo nell’analisi anche la media mensile di ore effettivamente retribuite e del tasso di occupazione reale. In Italia siamo al 43%, fra i Paesi dell’Unione con il divario peggiore secondi solo a Paesi Bassi e l’Austria (44,2%).
La gravità del tema ha indotto la Commissione europea a presentare una proposta di direttiva per rafforzare la parità retributiva di genere, con una maggiore trasparenza e un migliore accesso alla giustizia. La direttiva prevede il diritto da parte dei lavoratori di chiedere ai propri datori di lavoro informazioni sui livelli salariali medi ripartiti per genere. Allo stesso tempo dal canto loro le imprese, oltre a pubblicare sul proprio sito e in modo accessibile i dati, dovranno fornire risposta alle richieste in tempi ragionevoli e nel rispetto delle norme sulla privacy. Oltre a ciò le aziende dovranno informare i candidati sul livello retributivo della posizione per la quale si presentano e allo stesso tempo avranno il divieto di chiedere informazioni sulle precedenti retribuzioni dei candidati.
La norma italiana, seppur mitigata, cerca di seguire le stesse orme.
Alle società virtuose, a partire dal 1° gennaio 2022, verrà data la certificazione sul rispetto della parità di genere, documento volto ad attestare l’implementazione di politiche e misure atte alla riduzione proattiva del gap uomo donna. Le azioni dovranno essere volte a migliorare la condizione retributiva, la crescita aziendale e gli strumenti di welfare a tutela della sfera personale della donna, come ad esempio la maternità.
Sarà quindi il Consiglio dei Ministri a stabilire i parametri minimi per il conseguimento della certificazione, le modalità di monitoraggio, verifica e pubblicità. A sovraintendere il funzionamento e l’efficacia di tale disposizione è stato istituito il Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese.
La misura prevede inoltre, un esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un importo massimo annuo di 50 milioni di euro, rimodulato ogni anno tramite apposito decreto e un punteggio definito “premiale” per la valutazione, da parte di Autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti. L’assegnazione avverrà tramite bandi di gara in cui le amministrazioni indicheranno le procedure per procedure per l’acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell’offerta per le aziende private che hanno la certificazione della parità di genere.
È invece introdotto l’obbligo, per le imprese pubbliche o private, che superano il tetto dei 50 dipendenti di redigere un rapporto ogni due anni sul bilanciamento della quota rosa in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni. La relazione dovrà tenere conto della formazione effettuata in azienda, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica. Per le aziende al di sotto di tale soglia, è prevista la facoltà, su base volontaria, di redigere il rapporto. Il rapporto deve essere inviata entro il 31 dicembre di ogni anno.
La norma poi pone un necessario distinguo tra discriminazione diretta e indiretta. Saranno infatti considerati discriminatori tutti gli atti organizzativi societari che modificano le condizioni di lavoro, non considerando la sfera privata del lavoratore. Lo stesso criterio è applicato alle modifiche che limitano lo sviluppo di carriera per la donna, rispetto alla generalità degli altri lavoratori. La nozione di discriminazione è stata estesa anche agli atti compiuti nei confronti di “candidate e i candidati in fase di selezione del personale” e non più solamente alle lavoratrici e lavoratori.
Il monitoraggio della legge prevede, oltre alla summenzionata relazione biennale da presentare a conclusione di ogni anno, la valutazione degli effetti delle disposizioni del Codice delle pari opportunità che verrà presentata al Parlamento dalla consigliera o dal consigliere nazionale di parità, entro il 31 marzo di ogni anno. Si evince dunque che l’obiettivo della nuova legge sulla parità salariale sia non solo di sostenere le aziende illuminate, che rispettano e diffondono le buone pratiche in materia di uguaglianza di genere ma anche un modo per incentivare anche quelle che finora hanno operato discriminazioni, dando così vita a un circolo virtuoso.