Inchiesta

Pensioni, sistema insostenibile: lo Stato costretto a mettere di tasca propria 75 su 312 mld di spesa

Mentre il governo Meloni è alla ricerca di soluzioni palliative per evitare che a gennaio del 2023 tornino in vigore le regole previste dalla legge Fornero in attesa di tempi (e risorse) più maturi per una riforma organica delle pensioni, che non potrà essere affrontata in questa legge di bilancio perché i margini di spesa sono risicatissimi – l’ipotesi più accreditata pare sia Quota 41 (41 anni di contributi versati abbinati a un requisito anagrafico sul quale ancora non ci sono certezze) – a preoccupare sono alcuni numeri che pesano come macigni sul bilancio dello Stato.

Inflazione peserà sulla spesa pensionistica

Dell’impennata che la spesa pensionistica subirà nel 2023 a causa dell’inflazione e della necessità che il governo ha di reperire in tempi stretti ben 23,5 miliardi abbiamo parlato nell’inchiesta pubblicata lo scorso 13 ottobre dall’emblematico titolo “Bomba pensioni in mano alla Meloni”.

C’è, però, un’altra spada di Damocle che grava sulla sostenibilità del sistema pensionistico ed è quella che riguarda la “toppa” che lo Stato è costretto a mettere ogni anno in bilancio per coprire il gap tra le entrate contributive e il totale degli assegni erogati al personale in quiescenza.

Ha sfiorato infatti quota 312 miliardi di euro l’importo lordo delle pensioni complessivamente erogate nel 2021. Una cifra che nel 2020 ammontava a 307 miliardi e che quindi è cresciuta in un anno dell’1,5 per cento.

A scattare la fotografia sulla spesa previdenziale italiana è l’Inps nel suo XXI Rapporto Annuale che, in un parterre sempre più “affollato”, registra al 31 dicembre 2021 oltre 16 milioni di pensionati (di cui 7,7 milioni sono uomini e 8,3 milioni sono donne).

Non stupisca più di tanto l’aumento dei 5 miliardi visto che è cresciuto dello 0,2 per cento il numero dei pensionati: un incremento che in percentuale appare piccolo ma che in valore assoluto corrisponde a + 31.559 unità di personale in quiescenza rispetto al 2020. Ad allarmare è piuttosto un altro fattore che incide – e non per pochi spicci – direttamente sul bilancio dello Stato. Ma procediamo con ordine, partendo da un dato: l’ammontare delle entrate contributive.

Mancano all’appello 75 miliardi

I numeri riportati dall’Istituto previdenziale mostrano che tra il 2020 e il 2021 le entrate contributive sono aumentate del 5,2 per cento, passando da 225 a 237 miliardi di euro. Una buona notizia si dirà ma se la matematica non è un’opinione i conti non tornano. Se sono stati incassati 237 miliardi e ne sono stati spesi 312, mancano all’appello 75 miliardi. Soldi che però devono essere e sono stati sborsati. Dallo Stato che, per assicurare gli assegni ai 16 milioni di pensionati, deve mettere mano al portafogli. Lo stesso Istituto mette nero su bianco di avere le spalle ben coperte: “In generale, non è in discussione la stabilità dell’Inps che gode della più ampia garanzia, quella del Bilancio dello Stato; tuttavia, è importante monitorare costantemente il sistema di welfare non solo per misurarne il grado di autosufficienza ma anche per verificare l’efficienza dello stesso a rispondere ai bisogni per i quali è stato istituito”.

Un sistema che spende più di quello che introita però non è e non può essere sostenibile: “Occorre intervenire più tempestivamente sulle contribuzioni correnti” sostiene il Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, nella sua relazione a corredo del Rapporto, aggiungendo che “Abbiamo bisogno di più lavoro e di lavoro meglio retribuito se vogliamo assicurare al Paese la sostenibilità del suo sistema di welfare”, ferma restando “la necessità di poter offrire maggiore libertà di scelta ai cittadini sul momento in cui vogliono andare in pensione”.

Proprio su questo punto si innesta il no del presidente dell’Inps a Quota 41: “Le quote rigide, a mio parere – ha detto parlando con i giornalisti all’Università della Calabria a margine della presentazione del rapporto 2021 dell’Istituto – non aiutano nella direzione della flessibilità di cui il sistema pensionistico avrebbe bisogno. Bisognerebbe pensare ad una combinazione e ad una flessibilità che possa favorire le carriere instabili e i lavoratori fragili”.

Una posizione, quella di Tridico, analoga a quella che da settimane esprime con forza il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che a margine dell’assemblea di Federmeccanica svoltasi lo scorso sabato, ha ribadito: “Credo che se dobbiamo parlare di pensioni forse bisogna affrontare seriamente una riforma del sistema pensionistico e non andare avanti con ‘quote’”.

Mancano all’appello 12 miliardi di euro di contributi, colpa del lavoro sommerso

Il Rapporto Annuale elaborato dall’Inps tocca anche lo spinoso tema del lavoro sommerso. Anche in questo caso i dati sono allarmanti: in Italia infatti – segnala l’Istituto previdenziale – più di un individuo su dieci lavora senza che il suo datore di lavoro versi una parte o la totalità dei suoi contributi sociali.

Come descritto nella Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva per l’anno 2021, il lavoro sommerso nella Penisola ammonta nel 2018 a circa 3,2 milioni di posizioni lavorative irregolari che generano circa 12 miliardi di evasione contributiva. E nel 2019 – secondo l’ultima rilevazione disponibile, fornita dall’Istat – quelle cifre non sono mutate.

La comparazione con gli altri Paesi europei sull’incidenza del lavoro non regolare non è meno preoccupante. Analizzando l’incidenza del lavoro non dichiarato sul valore aggiunto lordo totale nel 2017 nell’Unione europea, “è interessante notare – si legge nel Rapporto Inps – che la media europea (16,4%) divide i Paesi in due gruppi. I nuovi membri, per lo più Paesi dell’est Europa, si trovano quasi tutti sopra la media e hanno le performance piu? preoccupanti in termini di lavoro non regolare in Europa. Purtroppo, l’unico paese tra i 6 membri fondatori dell’Unione che si trova in tale gruppo è proprio l’Italia, vicina alla media europea con il 16,9%. Gli altri Paesi mediterranei dell’Unione sopra la media sono la Spagna con il 17,9% e la Grecia con il 22%. Nel gruppo dei Paesi Ue con minore incidenza di lavoro non regolare si trovano, invece, la Germania con il 7,1%, l’Inghilterra con il 9,1% e la Francia con l’11%”.

Di fronte a questo scenario che per la Penisola è tutto fuorché roseo, incombe lo spettro dei due obiettivi – inseriti nel Pnrr e relativi al contrasto del lavoro sommerso – che l’Europa ci impone di raggiungere: ridurre del 2% il tasso di lavoro non regolare entro il 2026 e aumentare l’azione di vigilanza ispettiva del 20% rispetto a quanto svolto nel periodo 2019/2021 (obiettivo da centrare nel 2025).

Sul secondo obiettivo l’Inps appare ottimista: “l’azione ispettiva in tempi di pandemia ha avuto una brusca riduzione, pertanto si ritiene che i livelli richiesti dal piano (nazionale per la lotta al sommerso proposto dalla commissione istituita ad hoc con D.M. n.32/2022, nda) possano essere raggiunti”.

A onor del vero però il calo dell’attività di vigilanza ispettiva risale a prima del Covid: come registrato nel Rapporto, il numero di ispezioni svolte da personale Inps, Inail e Mpls (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), sotto il coordinamento di Inl, è stato di 160 mila circa nel 2017, è sceso a 144 mila nel 2018, ha continuato a calare nel 2019 (142 mila) e, a causa della crisi pandemica, si è praticamente dimezzato nel 2020 (circa 75 mila). È lo stesso Istituto previdenziale a segnalare che “negli ultimi anni, la vigilanza ispettiva ha ridotto le sue attività per lo più a seguito di una costante riduzione del personale ispettivo e che solo ora sta ristabilendo i propri organici con nuove assunzioni”.

Sul fronte del controllo rientra anche l’attività mirata ad intercettare ab origine i “furbetti” del Reddito di Emergenza e di Cittadinanza: nel 2021 sono state preventivamente bloccate quasi 58mila domande per l’insussistenza di uno o più requisiti in capo al richiedente, per un valore economico di circa 33 milioni di euro di prestazioni non erogate e segnalate alle Forze dell’Ordine.

Ben più complesso sarà il raggiungimento del primo obiettivo, quello cioè relativo alla riduzione di due punti percentuali del sommerso da lavoro entro i prossimi quattro anni: l’Istituto con deliberazione del Consiglio di Amministrazione n. 17 del 23 febbraio 2022 ha conferito un incarico dirigenziale di consulenza denominato “Studio sugli ambiti di azione e sulle iniziative che l’Istituto dovra? sviluppare per l’ampliamento della base imponibile” con l’obiettivo, appunto, di analizzare e studiare politiche e azioni amministrative atte alla crescita delle entrate contributive.

Una questione vitale per la sostenibilità dell’intero apparato del welfare nazionale perché – ed è lo stesso Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, a sottolinearlo nella sua relazione a corredo del Rapporto – “Per l’equilibrio del sistema previdenziale, occorre garantire la sostenibilita? della spesa ma anche l’allargamento della base contributiva sia in termini di recupero del sommerso che di incremento della massa retributiva per i lavoratori regolari”.