L’Italia ha detto no alla produzione e alla commercializzazione della carne coltivata, della quale tanto si parla da mesi. In questo momento, probabilmente, il nostro Paese ha fatto bene, perché il sistema economico italiano non è ancora pronto, in quanto le aziende zootecniche e l’occupazione nel settore verrebbero danneggiate, perché la nostra cultura alimentare è lontana da ipotesi alternative a quelle correnti, perché le nostre industrie agroalimentari non sono attrezzate, ecc…
Al fianco del Governo si sono schierate le organizzazioni degli agricoltori e degli allevatori, Coldiretti in testa, che ovviamente difendono gli interessi dei loro associati, che vedono la carne coltivata come il fumo negli occhi, almeno fino a quando non saranno, a loro volta, pronti. Il no dell’Italia, e non solo dell’Italia, a questo prodotto, però, gioco forza, è transitorio per una serie di motivi che proverò a sintetizzare.
Personalmente penso che gli allevatori italiani, molto presto, si divideranno in due categorie: quelli che produrranno con i sistemi tradizionali rivolgendosi a un mercato per ricchi, che sono sempre più ricchi, ma sono minori di numero, e quelli che si adegueranno ai nuovi modelli e invaderanno il mercato con un prodotto sempre migliore e sempre più accettato. Sono sicuro che il percorso sarà veloce, perché la fame e la povertà nel mondo crescono in maniera esponenziale e la scienza, che non è affatto democratica, non ha nessuna intenzione di attendere i tempi della politica.
A non attendere i tempi della politica italiana, poi, non è disponibile neanche l’industria agroalimentare globale che, prima o poi, troverà un paese nel quale poter produrre legalmente la carne coltivata e qualche altro paese in cui commercializzarla. Subito dopo troverà dei bravissimi chef che elaboreranno ricette straordinarie a base di carne coltivata e dei ristoratori che apriranno locali specializzati, in cui i prezzi saranno più bassi e più competitivi di quelli praticati altrove.
L’ultimo passaggio sarà affidato ai media, ai pubblicitari e ai giornalisti, che ci spiegheranno come il potere nutrizionale della carne coltivata non ha nulla di diverso di quello della carne prodotta con i sistemi tradizionali; che l’uccisione di animali è eticamente sbagliato (ed hanno perfettamente ragione); che l’acqua serve per rendere fertili le terre incolte, che sono tante; che la carne coltivata è più democratica dell’altra; ecc… Insomma, non ci giro più intorno: se fossi nei panni degli allevatori italiani non perderei tempo a contestare più del necessario e proverei a non subire il progresso, ma a cavalcarlo e magari proverei a farlo in fretta perché, in caso contrario, le loro recenti proteste per impedire la produzione di carne coltivata, si trasformeranno presto in pressanti richieste per ottenere i sussidi necessari per salvare le loro aziende destinate a chiudere.
In fondo, se per una volta riuscissimo a guidare il progresso e non a rallentarlo o a subirlo passivamente, vivendo inutilmente nel passato, che non torna, non sarebbe male. Ancora siano in tempo a cambiare rotta, ma non approfittiamone troppo perché neanche il tempo è democratico.