Si legge sempre meno, si studia male, si comprende poco, ci si isola molto, si reagisce in maniera scomposta, si fanno meno figli, si aprono le frontiere ai popoli ma non alle culture, si tende a risolvere i conflitti con la forza. Ci sentiamo sempre meno cittadini, infatti, veniamo trattati sempre più da consumatori, viviamo poco a casa e molto in spazi comuni, che ci privano della nostra identità e ci fanno diventare merci, prodotti da utilizzare di volta in volta mantenendoci comunque a debita distanza. I comportamenti globali tendono a trasformarci in massa ed a travolgere le individualità, facendoci precipitare nell’individualismo più esasperato. Le fedi religiose sono sempre meno tolleranti e sempre più esasperate nei confronti delle altre, trionfano i luoghi comuni. I centri di aggregazione culturale, politica o semplicemente civica sono diventati una rarità riservata ad élite sempre più ristrette e tanto altro.
Questi appena indicati, infatti, sono soltanto alcuni dei tratti della società nella quale stiamo vivendo. Noi ne avremo ancora per qualche decina d’anni, ma poi cosa accadrà? Cosa sarà riservato ai nostri figli e ai nostri nipoti? Per ipotizzarlo non serve Giorgio Orwell, né Frate Indovino con le sue profezie, basta guardarci intorno e sapremo pensarlo anche noi, senza neanche troppa immaginazione. Le caratteristiche somatiche cambieranno, le differenze nel colore della pelle scompariranno per dare spazio ad una sfumatura unica, il tutto accadrà lasciando prevalere i tratti dominanti per tipologia, per numero o per economia. Vivremo, anzi, dormiremo, in case sempre più piccole e sempre meno accoglienti, dato che saranno in parte adibite ad ufficio domiciliare, saremo sempre più isolati anche nei luoghi di lavoro o di aggregazione, la cultura, che prima si formava attraverso la lettura dei libri ed il confronto dialettico, adesso sarà affidata a dei “Bignami” digitali, a dei test a risposta multipla ed a squadre di seguitissimi influencer. Le nostre opinioni conteranno solo in funzione delle tendenze commerciali e dei gusti speculativi, la Divina Commedia si trasformerà in un insieme di aforismi e così anche la filosofia e la letteratura. Pompei non sarà considerata una fondamentale testimonianza della civiltà romana, ma un esempio di urbanizzazione priva di piani regolatori, la Villa del Casale sarà considerata uno spreco di epoca antica e la Gioconda una donna indecisa.
Si potrebbe andare avanti per pagine intere su qualsiasi altro argomento e le cose, purtroppo, non saranno tanto diverse da quelle appena descritte. Il risultato sarà una società in cui pochissimi potenti, speriamo anche illuminati, stabiliranno cosa sarà giusto e cosa sarà sbagliato per tutti, ed in cui tantissimi cittadini appiattiti, omologati, parzialmente decerebrati saranno chiamati a decidere, al massimo, quale dovrà essere il colore della prossima divisa della linea primavera-estate che dovranno indossare e quale sarà il gusto della Nutella del secolo a venire. Certo non è una bella prospettiva, o forse lo è, dipende dai punti di vista. Forse non è vero che ciascuno di noi ha nel proprio DNA il desiderio di migliorare, di contribuire alla crescita ed allo sviluppo? Forse non è vero che aneliamo sapere, ma forse preferiamo sospettare, o magari, forse, amiamo limitarci a sopravvivere come fossimo piante su un terreno incolto.
Se non fossi un inguaribile ottimista mi potrei fare trascinare dalla depressione, come accade a sempre più persone, forse potrei precipitare nell’oblio dei farmaci o delle droghe, ma fortunatamente non è mia abitudine smettere di lottare, anche quando è faticoso, anche quando tutto lascerebbe presagire l’ineluttabile. Credo che ciascuno di noi, ognuno per quello che può, dovrebbe opporsi a questa tendenza livellante nella quale stiamo rischiando di precipitare.
Tuttavia credo che non sarà facile, soprattutto se non cominceremo a comprendere che colui il quale ci porta ogni giorno un bicchiere d’acqua per dissetarci, o un tozzo di pane per sfamarci, impedendoci di scavare un nostro pozzo o di mangiare anche un frutto coltivato da noi, non è un benefattore, al quale essere riconoscenti, ma uno sfruttatore, che ci tiene vincolati a lui attraverso il parziale soddisfacimento, da parte sua, dei nostri bisogni primari. Proviamo a non assuefarci!