Rabat mi piacque subito per quel suo essere tutto fuorché una città turistica. È la capitale, il centro della diplomazia, la sede del Re. Ovunque campeggiano immagini della famiglia reale. Il Re, come l’imperatore in Giappone, viene venerato.
Una porta tra le vie della città
Rabat è pulita, ordinata, con viali alberati e intimi palmeti. Per il suo passato francese è una città europea sotto molti profili. Dopo il freddo e il vento di Tangeri mi sentii subito a mio agio. Tutto era a portata di mano e non c’erano torme di ragazzini fastidiosi. C’era un grande atrio nell’albergo pieno di uomini africani, bellissimi, con visi e sorrisi luccicanti e indosso i meravigliosi abiti tradizionali, lunghi e colorati.
L’immagine del Re
Rabat ha un grande mercato: vivo, dinamico, pieno di gente che ricorda quella Vucciria di Palermo dipinta da Renato Guttuso. A ogni angolo ci sono spremitori di canna da zucchero: buonissima, fresca, rinfrancante. Per strada, in piedi, mangiavo spesso le sardine grigliate all’aperto, sul carbone, accompagnate dalla ricca spezzettata insalata marocchina, condita con limone e prezzemolo. Venivano arrostite, sulla legna d’agrumi, anche quaglie e costolette d’agnello. Su cui si beveva yogurt alla menta. Sulle bancarelle dolci ricoperti di glassa bianca e ornate da fili di zucchero d’ogni colore. All’imbrunire i venditori sbucciavano i fichi d’india: piccoli e sodi, naturali, gustosissimi. E c’erano uomini che vendevano fave bollite calde e ceci che mettevano in coni di carta con un po’ di sale e pepe. E in grandi pentoloni cuocevano le lumache, chiamate in marocchino babbaluci, come in Sicilia. Il mercato è affascinante e non ci sono gruppi di turisti con la guida e la bandierina a rovinare tutto: il turismo di massa finisce con lo snaturare i luoghi, li appiattisce, li … disneyfica.
Un negozio di spezie
A Rabat amavo perdermi nei labirinti dei suk, camminare ore senza meta, tra porte dipinte, piccole e coloratissime fontane, negozi di variopinte spezie e antiche scuole islamiche. In piccolissime botteghe artigiani che lavoravano pelle e tessuti: barbieri, calzolai, orologiai. In piccoli locali semibui vedevo uomini maturi seduti che bevevano tè caldo alla menta. Tra le loro gambe, su bassi sgabelli anneriti, piccoli lustrascarpe dai visi induriti, le manine nere, come gli scugnizzi sivigliani nei meravigliosi quadri settecenteschi di Bartolomé Esteban Murillo. Rimanevo, in un silenzio rispettoso, a osservare gli artigiani mentre lavoravano. E di frequente venivo invitato a bere un sorso di tè accanto a loro. Fuori le mura della città antica c’è un grande parco, un po’ malinconico, con una fontana e degli alberi secolari.
Spesso il pomeriggio andavo a sedermi lì per riposarmi e riflettere. Un giorno un uomo sui cinquant’anni si venne a sedere accanto a me. Mi raccontò ch’era andato in pensione da poco, dopo aver lavorato come guardia del corpo reale. Era ben vestito, scuro, scuro come il crepuscolo e con gli occhi d’un trasparente verde-azzurro. Mi spiegò che il Re ama circondarsi di guardie del corpo, uomini giovani e belli. Il giorno seguente mi accompagnò a fare un giro per la città con la sua vecchia auto.
Nonostante Rabat sia una città marinara, la presenza dell’oceano non si avverte molto. Solo quando passammo vicino a un grande cimitero islamico sul vasto pendio di una collina, scorsi l’immenso Atlantico, maculato di ombre argentate, irrequieto, ondeggiante sotto un cielo senza fine.
Una splendida fontana
Mangiammo nella sua casa di campagna, bianca e circondata da un muro bianco con galline che gironzolavano nel cortile tra tronchi di alte palme ondeggiati per il vento. Preparò velocemente un cuscus al pesce e pranzammo in compagnia di suo figlio, anche lui guardia del corpo al palazzo reale. Un bel ragazzo scuro, asciutto educato, un po’ timido. Mangiò in fretta per tornare subito al lavoro.
Il mio ospite mi spiegò che trovare un lavoro in Marocco è come trovare un vero tesoro. E che spesso il posto passa di padre in figlio. Mentre ci riposavamo sul letto mi raccontò ch’era rimasto vedovo da qualche anno. Era buono, affettuoso, malinconico. Trascorremmo il resto del pomeriggio in un piccolo e semplice hammam riscaldato con legna di pino, con due rustici ambienti a cupola, in mattoni rossi.
Lasciammo i vestiti in una cesta entrando in una prima stanza nebbiosa: l’intenso profumo d’eucalipto e di pino mi liberò subito il naso.
Dopo una doccia ci stendemmo sul pavimento caldo di terracotta sopra dei teli, tra il vapore. Uomini anziani si facevano insaponare e massaggiare dagli inservienti, con dei teli bagnati intorno ai fianchi. Ci riservarono il medesimo trattamento, sciacquandoci poi a secchiate. L’acqua era calda e profumata di menta.
Poi ci rilassammo nell’altra stanza dalla volta a cupola. Il soffitto era pieno di mazzi di foglie d’eucalipto con al centro una caldaia di ferro con dentro, a bruciare, legna di pino che ogni tanto scoppiettava. Una meraviglia.