Grande enfasi qualche settimana fa quando è stato annunciato il Reddito di libertà, il sussidio che dovrebbe consentire un piccolo aiuto alle donne vittime di violenza che intendessero ripartire. Ma è davvero sufficiente? Quali sono i requisiti per ottenerlo? Di cosa hanno effettivamente bisogno le donne per uscire dalla situazione di violenza e acquisire la loro indipendenza?
A spiegarlo a QdS.it è Anna Agosta, consigliera nazionale per la regione Sicilia della rete D.I.Re, associazione nazionale antiviolenza gestita da organizzazioni di donne e presidente dell’associazione Thamaia a Catania.
“Il Reddito di libertà è sicuramente una misura utile, in quanto consente alle aventi diritto un’erogazione una tantum di 4 mila euro – spiega Anna Agosta -. Non sono grandi cifre, ma possono essere d’aiuto in un momento di difficoltà. Tuttavia i tre milioni di euro stanziati allo scopo, tra l’altro recuperati dal piano antiviolenza degli anni precedenti, riuscirà a coprire il fabbisogno di sole 600 donne circa. Troppo poche, visto che l’Istat ci dice che, soltanto nei centro antiviolenza italiani, arrivano ogni anno circa 50 mila donne. Per questo ritengo che si tratti più di un intervento di facciata, sbandierato a ridosso della ricorrenza del 25 novembre”.
“I requisiti per ottenere il Reddito di libertà sono troppo stringenti e soprattutto rispecchiano poco i bisogni reali delle vittime. Per accedere al sussidio occorre che la donna sia seguita tanto dal un centro antiviolenza, quanto dai servizi sociali. Ma non si considera che non tutte le vittime di violenza necessitano di servizio sociale e viceversa.
Tra l’altro, la misura non rispetta il diritto alla privacy e all’anonimato delle vittime. Se al centro antiviolenza è assolutamente garantito il rispetto della volontà della donna, anche quando questa desiderasse non denunciare il proprio aggressore e non rendere note le sue generalità, i servizi sociali chiedono i dati di coloro che prendono in carico. Il ché significa che chi volesse provare a ottenere il Reddito dovrebbe necessariamente fornire il proprio nome.
Il doppio binario, di fatto, ricalca il modello del controllo sulla donna, così obbligata a rivelare la propria identità. Ma le criticità non finiscono qui: escluse dalla misura restano le donne che si trovano nelle case rifugio, anche quando siano state prese in carico dai servizi sociali. Perché, appunto, non vivono in un centro antiviolenza”.
“Purtroppo, trattandosi di una misura a sportello, non verrà rispettato alcun criterio economico-sociale di priorità. Accederanno alla misura coloro che avranno presentato per prime la richiesta. Ciò che abbiamo potuto constatare è stata la difficoltà per molte donne nell’acquisire le giuste informazioni al riguardo. Se su alcuni comuni in Sicilia i servizi sembrano essere dotati di personale preparato, altri non sempre sono stati in grado di informare le donne in modo opportuno”.
“Il Reddito di libertà è un sussidio irrisorio, seppur utile per le donne vittime di violenza, che agisce sempre nell’onda dell’emergenza. Ma non è una misura che si inserisce in un cambio di passo sistemico, in un intervento strutturale, che possa effettivamente garantire l’autonomia delle donne.
L’approccio preferibile dovrebbe mirare non al semplice assistenzialismo, ma all’emancipazione, all’autonomia, all’autoprogettazione. Per questo noi del centro antiviolenza accompagniamo la donna nel suo personalissimo percorso, individuando le sue specifiche esigenze e spingendola talvolta a partecipare a tirocini formativi e borse lavoro, così da consentirle di confrontarsi con il mondo e imparare una professione”.
“Per combattere davvero la violenza di genere occorre supportare centri antiviolenza e case rifugio. E poi formare correttamente gli operatori che entrano in contatto con le vittime: dal personale dei centri antiviolenza a quello dei tribunali, dal personale sanitario del pronto soccorso a quello delle forze dell’ordine.
Se tutti gli operatori fossero correttamente formati, avremmo indubbiamente molti più riscontri di emersione del fenomeno della violenza di genere. Inoltre le stesse vittime comincerebbero a nutrire nuova fiducia nei confronti delle istituzioni. Il più delle volte, ahimè, quando si rivolgono a un pronto soccorso per un attacco di panico o alle forze dell’ordine, non ottengono l’effetto desiderato. Questa mancanza di considerazione non fa altro che rafforzare in loro le considerazioni degli aggressori, che le accusano di essere ‘poco credibili’ o addirittura colpevoli di ciò che subiscono.
E bisognerebbe pure lavorare sulla prevenzione, in maniera però più ragionata. La prevenzione, anche nelle scuole, non può essere lasciata al caso o soltanto all’iniziativa spontanea delle associazioni. Senza considerare l’importanza del superamento della violenza economica sulle donne, che continuano a guadagnare meno degli uomini e a essere discriminate sul luogo di lavoro, così come l’esigenza di serie politiche di conciliazione che consentano l’assistenza gratuita dei minori a tutte quelle donne che volessero lavorare ed essere economicamente indipendenti”.