Ci sono tanti modi per redistribuire la ricchezza, si può sprecare distribuendo contributi a pioggia, si può investire creando infrastrutture, si può realizzare gonfiando a dismisura l’inefficiente apparato pubblico, si può ottenere favorendo investimenti produttivi pubblici e privati, avendo cura di valutarli bene prima. Insomma si può redistribuire la ricchezza sprecandola o creando nuova ricchezza. I due modelli sono assolutamente antitetici ed hanno in comune soltanto il termine redistribuzione, unitamente all’auspicio che essa possa migliorare la condizione complessiva dell’intero Paese.
Sembrano riflessioni ovvie, forse persino banali, tuttavia i fautori dei lunghi strascichi culturali della fallimentare ideologia marxista e post marxista, che resistono persino al crollo dei loro simboli, (il muro di Berlino, l’Unione Sovietica, la Cina maoista, Cuba castrista, ecc.) stentano ad ammettere concetti così semplici ed a comprendere, intanto, un semplicissimo assunto: la ricchezza, prima di essere redistribuita, deve essere prodotta e per produrla bisogna scegliere se sprecare quel poco che c’è, ad esempio, con truffaldine misure come quelle del famigerato 110%, che ha aiutato i ricchi, o se investire sostenendo la realizzazione di strade e ferrovie o magari per abbassare le tasse a chi assume dipendenti o a chi apre un’impresa (sana) e crea lavoro e sviluppo.
Gli statalisti di nuova generazione non sanno che pesci prendere, anche perché molti di loro, grazie alle banche e alle imprese cooperative di cui detengono la maggioranza del capitale sociale, stanno dalla parte di chi non vuole sprechi e cerca incentivi seri. I pauperisti, invece, stanno dalla parte di chi vorrebbe tassare “gli sporchi padroni” per favorire nuove forme di distribuzioni a pioggia con le quali sostenere fannulloni e camorristi, con la complicità di patronati spregiudicati e uffici anagrafe pronti a certificare qualsiasi cosa, magari in cambio di qualche “lauto favore”. Da che parte sto io mi pare di tutta evidenza: sto dalla parte dell’uso corretto e produttivo della spesa, sto dalla parte della solidarietà, ma non del solidarismo speculativo, sto dalla parte di chi rischia del proprio e proprio per questo non merita di essere accusato gratuitamente dall’improduttiva invidia sociale.
In poche parole sto dalla parte di chi rispetta la legge e si batte per far sviluppare l’economia ed il lavoro, non dalla parte di chi spreca, sto dalla parte della storia “maestra di vita”, sto dalla parte di chi ha chiaro il concetto che non è la ricchezza che bisogna combattere, bensì la povertà. Per riuscire in un così difficile compito bisogna abbandonare la politica della “gestione dei problemi” ed intraprendere la politica della “soluzione dei problemi”, bisogna scegliere meglio la classe dirigente a cui affidare il compito di guidare le istituzioni dello stato, bisogna guidare il Paese con buonsenso e responsabilità, così da difendere sia la democrazia, sia la libertà, le quali, come vediamo in giro per il mondo, sono concetti per nulla scontati. La nostra Nazione ha bisogno di ritrovare se stessa, ha bisogno di recuperare i propri valori, ha bisogno di sostenere chi investe e crea lavoro.
Un’Italia in cui prevalga l’improduttiva invidia sociale non va da nessuna parte, non crea sviluppo, non riduce la spesa pubblica ridondante o poco efficace, non migliora la qualità della vita dei suoi cittadini. L’Italia che bisogna costruire deve essere un’Italia sicura, libera, efficiente, giusta, intraprendente, coraggiosa, aperta, accogliente, pulita, intelligente. L’Italia dei nostalgici, della destra e della sinistra di un tempo, non crea lavoro, non crea sviluppo, non crea investimenti, non migliora la qualità della vita, semmai alimenta odio e invidie sociali, sfruttamento e anomale furbizie da ladri di passo. Il nostro carattere, la nostra inventiva, la nostra cultura, meritano molto di più di quello che offrono oggi le piazze. Nulla, però, accade per caso e ogni cambiamento deve essere programmato, preparato e realizzato attraverso buonsenso e pazienza.