Nelle riflessioni pubblicate in questo Quotidiano il 16 novembre 2021 ed il 12 febbraio 2022 erano state illustrate le ragioni per le quali l’accoglimento della proposta referendaria relativa alla responsabilità del magistrato, lungi dal recare un beneficio ai cittadini si sarebbe rivelato un vero boomerang per la Giustizia ed i cittadini.
In particolare era stato evidenziato come una più puntuale disciplina sulla responsabilità dei magistrati doveva essere conseguita non ampliandosi a dismisura l’azione civile contro di questi, bensì attraverso una seria riforma sia del CSM sia del sistema disciplinare, oggi gestito mediante una giurisdizione domestica, che non garantisce né i magistrati sottoposti a procedimento disciplinare né il cittadino, il quale, vessato da un magistrato, si rivolga fiducioso all’Organo di autogoverno.
Depennato dalla Corte costituzionale il quesito in questione, domenica 12 giugno (ore 7 – 23) si svolgeranno i referendum per gli altri cinque, concernenti, sotto diversi profili, l’amministrazione della Giustizia, dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale con cinque sentenze (dal n. 56 al n. 60), tutte in data 8 marzo 2022.
Il corpo elettorale, comprensivo anche degli elettori residenti all’estero, è pari a 51.533.195. Per il raggiungimento del quorum occorre, quindi, che si presentino al voto almeno 25.766.598 elettori. Ciascuno di noi può costituire, pertanto, la differenza tra referendum valido o non.
C’è il dovere civico di votare? La risposta è: No. Infatti, chi è contrario ad un quesito oppure non si ritenga sufficientemente convinto dell’opportunità del referendum, in una materia oltremodo tecnica, che avrebbe avuto bisogno di notevoli approfondimenti in sede parlamentare, può scegliere liberamente di non votare, nell’ottica che la sua assenza contribuisca a non far raggiungere il quorum. Come pure può decidere di partecipare soltanto a taluni dei referendum, con la conseguenza che – teoricamente – il quorum potrebbe essere raggiunto solo per una parte dei quesiti e non per altri; ma l’esperienza, che si ricava da quelli precedenti, insegna che la massima parte degli elettori di fatto partecipa a tutti i referendum, anche se poi taluno inserirà nell’urna una scheda non compilata (1).
Come da ufficiale comunicazione del Ministero – le schede sono così contraddistinte:
Il quesito sull’abrogazione del D. Lgs. 31 dicembre 2012, n.235, il temutissimo (dai politici) c.d. decreto “Severino”, intende travolgere per intero la disciplina introdotta dal governo Monti per arginare il fenomeno dei politici sempre alla ribalta malgrado le condanne definitive (e non definitive) per una serie di reati.
In effetti, la c.d. legge “Severino” contiene delle disposizioni oggettivamente anche eccessivamente restrittive; ma a provocare la proposizione del quesito referendario è stato soprattutto il reiterato rigetto da parte della Corte Costituzionale delle questioni d’incostituzionalità sollevate da diversi giudici di merito, riguardo alla disposizione del decreto che stabilisce la durata fissa (18 mesi) della sospensione della funzione elettiva a carico dei condannati con sentenza non definitiva, quindi suscettibile di totale ribaltamento in appello, a prescindere dalla gravità del reato accertato dal giudice.
L’abrogazione referendaria del T.U., peraltro, non comporta la reviviscenza delle previgenti normative speciali, appunto abrogate dal decreto Severino, per come ne dà atto la stessa corte costituzionale con la sentenza n. 56 dell’8 marzo 2022, dichiarativa dell’ammissibilità del quesito.
A questo punto, cadute tutte le norme speciali, l’unico ostacolo all’incandidabilità dei politici oppure al mantenimento della carica elettiva sarà costituito dalle misure interdittive previste dal codice di procedura penale.
Il totale travolgimento di tutta la disciplina speciale appare del tutto inopportuno, laddove sarebbe stato più conducente limitare il quesito alle disposizioni riguardanti la durata in misura fissa della sospensione dalle funzioni a seguito della sentenza non definitiva.
Per i non addetti alla materia, va ricordato che attualmente le misure cautelari (che vanno dalla custodia cautelare in carcere a misure meno restrittive) nel corso del procedimento penale sono irrogate dal giudice su richiesta del P.M. al verificarsi di una di queste esigenze: a) pericolo di inquinamento delle prove, b) pericolo concreto ed attuale di fuga; c) concreto ed attuale pericolo che l’indagato commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata “o della stessa specie di quelli per cui si precede”: quest’ultimo inciso, oggetto del quesito referendario, riguarda appunto la possibilità del ricorso alla misura cautelare, qualora sussista il pericolo concreto che l’indagato possa commettere la stessa tipologia di reato.
Francamente riesce arduo al cittadino comune capire l’esigenza di escludere la custodia cautelare nel caso di pericolo concreto ed attuale di reiterazione di un reato della stessa specie, in questo momento, in cui si assiste ad una proliferazione di reiterazione della stessa tipologia di reati da parte degli stessi soggetti.
Con questa preclusione, il giudice non potrebbe disporre la misura cautelare, neppure se abbia la certezza che l’indagato, uscito dall’interrogatorio tornerà a delinquere (si pensi agli spacciatori di droga, ai furti nelle abitazioni ed ai comuni scippi) sino a che non intervenga (a distanza di anni e se avviene, stante la frequente provvida prescrizione) una condanna definitiva.
E rimarrebbe poco comprensibile (ad avviso di chi scrive) la ragione pubblicistica che ha indotto i consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte a porsi come proponenti di questo quesito, se non fosse che la preclusione alla custodia cautelare, proposta con il referendum, riguarda anche il finanziamento illecito dei partiti.
È vero che non infrequentemente procedimenti penali per finanziamento illecito dei partiti, portati avanti per anni con gran rumore di grancassa, si sono risolti alla fine con proscioglimenti, dopo avere danneggiato irrimediabilmente delle carriere politiche di persone anche integerrime, il che, in buona sostanza si risolve in un danno consistente pure per la collettività, poiché tende ad allontanare persone oneste e fattive che (e chi può dargli torto) antepongono la propria tranquillità al bene della comunità.
Ma il rimedio va conseguito non mediante l’esclusione per tali reati della custodia cautelare, bensì attraverso una più puntuale indicazione della norma incriminatrice che lasci meno spazio ad interpretazioni ardite da parte di magistrati, una volta definiti “d’assalto”.
Resta la constatazione che il quesito, così come formulato, consente di lasciare in libertà una grossa fetta di pregiudicati, per i quali il reato è un ordinario strumento per illeciti guadagni.
E adesso giungiamo ai tre quesiti che ineriscono direttamente all’organizzazione della magistratura, riguardanti, come già detto: quesito n. 3: la separazione delle carriere, tra magistrati inquirenti (PM) e magistrati giudici, mediante la preclusione del passaggio da una branca all’altra; quesito n. 4: partecipazione dei membri laici anche alle deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari riguardanti la valutazione professionale dei giudici; quesito n. 5: abrogazione delle norme che richiedono una lista di presentatori per candidarsi a componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.
Come noto, c’è stata una levata di scudi, accompagnata anche da uno sciopero indetto dall’Associazione Nazionale Magistrati, soprattutto riguardo ai tre quesiti, sciopero che, a mio avviso, non può dirsi un flop, dal momento che vi ha partecipato circa il 50% dei magistrati.
Il quesito è finalizzato a precludere il passaggio da magistrato inquirente (P. M.) a magistrato giudicante (per intenderci, i giudici dei tribunali, dell’Ufficio GIP, della Corte d’appello e della Corte di Cassazione) e viceversa.
Sul punto è da dire che già il legislatore nel 2006 (D. Lgs. n. 160) è già intervenuto rendendo più difficile il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa (richiedendosi il mutamento del distretto di appartenenza o, almeno, del circondario o della provincia).
In realtà, il quesito sulla separazione delle carriere nasce dall’esigenza, vivamente avvertita, di rendere meno agevole un rapporto preferenziale sulla gestione di vicende giudiziarie, cioè al di fuori della legittima sede del processo, tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti.
Questo rapporto preferenziale può nascere talora anche dall’appartenenza alla stessa famiglia (giudiziaria) oppure ad una stessa corrente, ed è stato messo in luce nel noto fortunato volume elaborato a quattro mani dal magistrato Luca Palamara e dal giornalista Alessandro Sallusti.
È da evidenziare, peraltro, che il quesito referendario non fa venir meno i due inconvenienti, poiché permane l’appartenenza alla stessa famiglia giudiziaria con l’unitarietà dell’Organo di autogoverno, costituito dal Consiglio Superiore della Magistratura.
E anzi è da sottolineare che la Corte costituzionale con la sentenza n. 58 ha ritenuto ammissibile il referendum, appunto perché non intacca la Magistratura come un “Unico Organo”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore, per come stabilito dall’articolo 104 della Costituzione.
Non solo. Ma è diffusa l’opinione tra i magistrati (anche tra quelli moderati) che la preclusione tenderà a rendere i pubblici ministeri come dei veri e propri poliziotti togati, più tesi alla individuazione del “mostro” da esibire e trascinare in giudizio, laddove mantenere, seppur con molti paletti, un passaggio da una funzione all’altra, consentirebbe in termini di giustizia un travaso di esperienze utili da una funzione all’altra.
Certamente una separazione delle carriere potrebbe anche giovare, ma non è per nulla risolutiva per l’eliminazione degli inconvenienti riscontrati.
Invero, per come illustrato nei due precedenti articoli, i difetti del sistema sono altrove e diversi. Consistono soprattutto nell’incrostazione ambientale che può derivare dall’eccessiva permanenza di un magistrato (soprattutto quello penale: P.M. e giudice) nella stessa funzione e presso la stessa sede e nella circostanza che sia i PP. MM. sia i giudici sono soggetti ad uno stesso CSM, nonché nel collegamento sistematico tra taluni magistrati ed i partiti politici che, sebbene formalmente oggetto di divieto illecito disciplinare, per come dispone l’articolo 3, comma 1, lett. h) del D. Lgs. 109 del 2006 (2) – la cui legittimità costituzionale è stata ribadita più volte anche dalla Corte costituzionale (v. Sentenza n. 170 del 2018) – viene tranquillamente mantenuto.
Ed a questo proposito va ricordato il recente richiamo fatto all’Italia dal “GRECO” – Organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, al quale in atto hanno aderito ben 47 Paesi – perché ponga una normativa seria ed efficace per regolamentare il passaggio dei magistrati alla politica e, in particolare, le modalità del loro rientro nella carriera di appartenenza, una volta conclusa l’esperienza politica.
Si tratta della questione delle c.d. “porte girevoli” per i magistrati. Vedremo in concreto cosa succederà, al riguardo, in Parlamento, in sede di approvazione della c.d. Riforma Cartabia.
A questo proposito, il referendum potrebbe essere utile soltanto se serve da stimolo per una seria riforma da attuarsi da un Parlamento responsabile. Altrimenti si rivela solo un palliativo.
In altre parole, l’unicità del CSM (oltre alla modalità di scelta dei suoi membri) oggi appare il vero ostacolo al funzionamento della macchina “Giustizia”, per come emerge dal “Vaso di Pandora” scoperchiato dal libro di Palamara – Sallusti, dal quale risulta che in base al gioco delle correnti sembra prevalere la categoria dei magistrati inquirenti (pur essendo circa 1/3 di tutti i magistrati, per come risulta da una rilevazione statistica del CSM al marzo 2017).
Un’idea potrebbe essere la creazione di due sezioni del CSM, una riguardante i magistrati inquirenti e l’altra i magistrati giudicanti; ma la Corte costituzionale sembra escludere una siffatta possibilità tramite una legge ordinaria, per come sembra desumersi dalla sentenza n. 58, ammissiva del referendum.
Al problema del CSM si collega anche il quinto quesito, relativo alla presentazione delle candidature per la nomina al CSM. Con l’accoglimento del referendum si intende abrogare la disposizione che richiede che ciascun candidato sia presentato da una lista di magistrati non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta.
Anche quest’abrogazione è contestata dall’associazione dei magistrati con il rilievo che in tal modo si andrebbe a verificare una proliferazione di candidati con dispersione dei voti.
Considerato che anche la sottoscrizione di una lista può etichettare i soggetti presentatori e che attualmente in effetti è notorio un potere extragiudiziale delle correnti, alle quali purtroppo neppure la riforma Cartabia pone un serio rimedio, forse non è male la soppressione della necessità di una lista di presentatori.
Il quesito più insidioso (quanto alla sua valenza), è il quarto, con il quale, mediante un sistema di tagli si intende ampliare la partecipazione dei membri laici (docenti universitari e avvocati del libero foro) anche alle deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari, costituiti presso ogni Corte d’appello, comprendendovi quelle che erano state escluse dal legislatore del 2006 (Governo Berlusconi, certamente poco arrendevole nei confronti dei magistrati), riguardanti carriera e status dei magistrati (in specie relative ai pareri sulle valutazioni di professionalità, su collocamenti a riposo, dimissioni, decadenze dall’impiego).
Sul punto la Corte costituzionale con la sentenza n. 59 ammissiva del referendum, dà espressamente atto che il legislatore ha, sin dall’inizio, modulato il funzionamento dei Consigli, limitando la partecipazione dei membri laici soltanto a talune materie, “al fine di scongiurare qualunque condizionamento dell’esercizio della funzione giudiziaria”.
In effetti non può escludersi che, caduta la limitazione imposta dalla legge del 2006, il magistrato possa di fatto sentirsi condizionato, nei casi in cui abbia a giudicare su vicende in cui siano parti oppure difensori soggetti laici che facciano parte degli Organi sopra indicati, sapendo che queste stesse persone, a loro volta, andranno a valutare la sua professionalità e le sue competenze per tutto il quadriennio del loro mandato.
È una preoccupazione tutt’altro che peregrina, della quale non hanno tenuto conto i proponenti del referendum.
L’entusiasmo dei promotori dei cinque referendum appare oggettivamente eccessivo riguardo al risultato che si intende conseguire con l’accoglimento dei quesiti. A questo punto, una domanda è d’obbligo.
L’articolo 121 della Costituzione consente a ognuna delle regioni di farsi promotrice di leggi avanti al Parlamento, sicuramente molto più organiche di quanto non possa essere un referendum abrogativo, che nulla può aggiungere al sistema in vigore.
Nel nostro caso ben cinque regioni si sono rese promotrici, in modo bipartisan, in quanto governate da schieramenti contrapposti, e che nel loro insieme costituiscono la gran maggioranza in entrambi i rami del Parlamento.
Ove si fosse voluta una vera riforma, con modifica anche di disposizioni della Costituzione, riguardo soprattutto alla composizione del CSM ed alla formazione dei suoi membri, non sarebbe stato più conducente, e sicuramente con il risparmio di spesa che comporta lo svolgimento del referendum, adoperarsi per la stesura di leggi organiche, in conformità allo scopo perseguito, piuttosto che procedere con l’arma del referendum ?
Misteri della politica italiana !
DIEGUS – LIBERO GIURISTA
Note:
(1) E infatti, ad esempio, nei cinque referendum per i quali si votò nel 1987 soltanto una minima parte degli elettori si avvalse della possibilità di non partecipare a taluni referendum, con una percentuale di affluenza che variò, tra un quesito all’altro, tra il 65,12 ed il 65,09.
(2) Questa disposizione trova giustificazione costituzionale nell’articolo 98, comma 2, della Costituzione, il quale prevede che con legge possono stabilirsi limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia, nonché per i rappresentanti diplomatici e consolari all’Estero.