Le sfide alle quali la stessa grande crescita ci pone di fronte chiedono a tutti noi la consapevolezza di essere in presenza di una nuova fase dello sviluppo mondiale, una nuova economia che pretende un nuovo e inedito livello di responsabilità individuale e di gruppo.
Sono del tutto d’accordo con Paolo Savona che, nelle conclusioni del suo bel libro Il terzo capitalismo e la società aperta, scrive: «Uscire da questa confusione appare compito indispensabile per innervare il terzo capitalismo e la società aperta, ossia costruire la società degli individui responsabili, la sola che ci appare in condizione di correggere i difetti del capitalismo, di raccogliere l’eredità sociale dello Stato del benessere lasciandoci alle spalle i suoi pasticci, di fare avanzare la democrazia e di assegnare a ciascuno – ossia all’individuo, all’intervento pubblico e alla democrazia (e aggiungo io: all’impresa) – il compito che ad essi spetta nello stabilire regole di convivenza più civili».
È un lungo, faticoso, difficile, precario cammino, pieno di rischi e di cadute. Ma se la direzione di marcia è condivisa da molti avremo qualche possibilità, ognuno portando il suo granello di sabbia, di vincere qualche mano a questa complessa partita.
È necessario che le istituzioni pluraliste (come l’impresa) contemplino nella loro visione, nel loro comportamento e nei loro valori, l’interesse e la responsabilità nei confronti del bene comune. In altre parole, occorre che esse si assumano la loro responsabilità politica.
Se è vero, come io credo sia vero, che la società degli individui (persone ed enti e organismi intermedi, come l’impresa) responsabili vuol dire una società dove ognuno e ciascuno si faccia carico delle proprie fette di bene comune e, nel suo agire, tenga conto di ciò e sia pronto a essere chiamato dalla ragione democratica a dare conto di ciò, allora, forse, noi stiamo anche scoprendo metodi e approcci antichi. Allora, forse, ritornare a ripercorrere la lunga strada delle origini del pensiero economico italiano, a partire da Albertano da Brescia a Cotrugli, può apparire meno stravagante di come poteva sembrare all’inizio.
Il fatto che i vecchi sentieri di montagna spariscano, coperti dal sottobosco, per abbandono e incuria, non toglie valore alla loro razionalità. Sicché ogni volta che essi vengono ricuperati e ripuliti per nuovi utilizzi, come quello turistico, essi tornano a donare al territorio valore, gentilezza, utilità, ricchezze.
Anche molti dei vecchi sentieri del pensiero che avevamo abbandonato meritano di essere ripresi, aggiornati, modernizzati, rivitalizzati. Molti dei nostri disagi sono, spesso, dovuti al fatto che li avevamo dismessi troppo presto. Al di là delle violente discontinuità del nostro tempo, dobbiamo ricomporre una trama più seria con il passato, per essere, come diceva Cotrugli del mercante perfetto, capaci di «ricordarci delle cose passate, considerare le presenti, prevedere le future».
E qui, in queste antiche e nuove esigenze, si aprono anche nel campo dell’economia e dell’impresa proficui campi di lavoro per lo spirito religioso, per la teologia, per la filosofia morale. Purché esse siano capaci di calarsi veramente nella conoscenza e nei travagli, così complessi, del mondo del lavoro e dell’impresa, con uno sforzo di conoscenza profondo, con una capacità di partecipazione autentica, con un desiderio serio di aiutare l’uomo e non solo di ammonirlo. E Cotrugli è un eccellente esempio di ciò.