Il caso portato alla Corte e deciso con la sentenza n. 161 del 2023 riguardava la revoca, da parte dell’uomo portatore del gamete maschile, del consenso all’impianto di un ovulo fecondato a seguito di Procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti Pma) e successivamente crioconservato. Nel frattempo era intervenuta la separazione dal coniuge e ciò aveva indotto l’uomo a negare il consenso prestato inizialmente. La donna pretendeva invece l’impianto e, di fronte al rifiuto opposto dalla struttura medica, aveva adito il giudice il quale sollevava questione di legittimità costituzionale del divieto di revoca del consenso alla Pma, una volta avvenuta la fecondazione (art. 6, terzo comma, l. n. 40 del 2004).
Le principali censure riguardavano la violazione dell’uguaglianza uomo-donna e della libertà di auto-determinazione dell’uomo a non diventare genitore (artt. 2 e 3 Cost.).
Nella sua formulazione originaria la legge sulla Pma prescriveva che l’impianto dell’embrione dovesse avvenire “il prima possibile” e consentiva la crioconservazione solo nel caso fosse intervenuto un grave problema di salute che imponeva di rinviare il trasferimento embrionale. Trattandosi solitamente di un rinvio a breve, era improbabile che nel frattempo le condizioni della convivenza o del coniugio, requisiti per accedere alla Pma, venissero meno. La situazione è mutata con gli interventi della Corte a tutela della salute della donna. Essa, da un lato, ha escluso l’obbligatorietà dell’unico e contemporaneo impianto di tutti gli embrioni fecondati (sent. n. 151 del 2009) e dall’altro ha consentito la diagnosi preimpianto dell’embrione per evitare di impiantare embrioni portatori di malattie genetiche (sent. n. 96 del 2015).
Le crioconservazioni, indispensabili in questi casi, sono quindi diventate più frequenti, con maggiori probabilità che nel tempo intercorrente tra fecondazione e impianto il comune progetto genitoriale alla base della Pma venisse meno. Dover comunque assentire all’impianto e diventare quindi padre contro la propria volontà non viola la libertà di auto-determinazione del solo uomo? Infatti è pacifico che alla donna è sempre consentito rifiutare l’impianto dell’embrione; diversamente, le verrebbe imposto un trattamento sanitario in violazione di norme interne e trattati internazionali. L’eguaglianza è violata se le situazioni messe a confronto sono uguali.
Così non è per la Pma: è la donna che, a differenza dell’uomo, mette a rischio la propria salute psico-fisica sottoponendosi a trattamenti invasivi e a terapie potenzialmente dannose. Le affronta anche facendo affidamento sul permanere del consenso iniziale del partner. Avrebbe intrapreso questo gravoso iter, forse non più ripetibile per ragioni anagrafiche e di salute, se all’uomo fosse stato consentito di “ripensarci” una volta formatosi l’embrione?
Inoltre, prima di iniziare il percorso procreativo medicalmente assistito entrambi i soggetti vengono informati sulle conseguenze sanitarie e giuridiche della loro scelta e quindi anche sull’eventualità che nel tempo di crioconservazione dell’embrione possano prodursi mutamenti nella loro situazione di coppia. Accettandole, l’uomo si assume la responsabilità di portare comunque a termine il percorso iniziato.
Poiché i rischi cui incorre soltanto la donna che si sottopone alla Pma escludono una violazione dell’uguaglianza e in assenza di coartazione della volontà dell’uomo, la Corte ha ritenuto ragionevole il bilanciamento degli interessi operato dal legislatore ed ha deciso per l’infondatezza della questione.
Giovanni Cattarino
già Consigliere della Corte costituzionale e Capo Ufficio Stampa