Editoriale

Riformare la legge elettorale, occorre un referendum per abolire il proporzionale

Il nuovo Governo, presieduto da Giuseppe Conte, ha ora quattro partner: M5s, Pd, Viva Italia e Leu. Ognuno dei quattro detiene la cosiddetta Golden share, vale a dire la facoltà di togliere il proprio appoggio e mandare in minoranza l’Esecutivo.
Dunque, non è solo Matteo Renzi ad avere tale facoltà, bensì ognuno degli altri tre partner.
A questo punto si è fatta chiarezza. Il programma di ventisei punti concordato fra i quattro è stato messo nero su bianco e il Governo può iniziare la propria attività di attuazione del programma medesimo.
Ovviamente bisognerà che i suoi componenti trovino un accordo per le modalità ed anche per i contenuti, perché vi sono divergenze tra i quattro che vanno appianate.
Nei nuovi disegni di legge che il governo dovrà approntare, si prevedono percorsi parlamentari accidentati, perché ben undici Commissioni hanno un presidente dell’opposizione, cioè un leghista. Sappiamo benissimo come le procedure possano ostacolare la formazione delle leggi.


Di fronte a questo scenario, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha preannunciato la presentazione di un referendum popolare per abrogare la parte proporzionale della legge elettorale vigente, detta Rosatellum, dal nome del suo autore.
L’iniziativa di Salvini vuole parare il colpo basso dell’attuale maggioranza, che vorrebbe riformare la citata legge elettorale eliminando, al contrario, la parte maggioritaria, facendola divenire interamente proporzionale.
Ovviamente questo sarebbe un ritorno alla prima Repubblica, quando le elezioni erano quasi sempre inconcludenti perché demandavano al Parlamento il compito di formare maggioranze che spesso erano variabili e ancora più spesso duravano da pochi mesi a un anno. In questo senso, ci preme ricordare i famosi Governi balneari.
Invece, come accade in Francia o in Gran Bretagna e in altri Paesi avanzati, la legge elettorale dovrebbe consentire, alla fine della tornata, di consegnare al Paese una maggioranza e un Governo capaci di durare tutta la legislatura. Con ciò si eviterebbe che i politici stiano da mattina a sera con l’orecchio attaccato ai risultati dei sondaggi.
Israele è un esempio da non imitare. In cinque mesi si sono svolte due tornate elettorali che non hanno risolto il problema di ottenere una maggioranza, per cui già si parla della terza tornata. Ma finché non cambierà quella legge elettorale proporzionale, in Israele regnerà l’ingovernabilità, con tutte le conseguenze del caso.
È perciò da vedere con favore l’iniziativa di Salvini che, con il referendum proposto da cinque Regioni, in cui vi è il Governo della Lega, sottoporrà al popolo il quesito se fare diventare governabile il nostro Paese per cinque anni, oppure mantenerlo in questo stato di fibrillazione continua, che ha portato, già in questa legislatura, ad avere due Governi (e non sappiamo se ve ne saranno altri).
A parte questa iniziativa di Salvini, non siamo con lui d’accordo per nessun’altra delle sue linee politiche, salvo che sul rigore in materia d’immigrazione, che ha consentito di ridurre drasticamente l’immissione di clandestini.

La riforma della legge elettorale potrebbe arrivare attraverso il referendum oppure con una nuova legge che il Parlamento potrebbe approvare. Se lo facesse prima della presentazione del quesito referendario, essa cadrebbe e non potrebbe essere più presentata al popolo, perché non si può chiedere un responso su una legge abrogata. Infatti, quella attuale, in caso di una nuova legge, verrebbe cancellata dall’ordinamento legislativo italiano.
La questione della legge elettorale è centrale in un sistema democratico perché, a seconda di come essa sia formulata, cambiano i risultati e con essi le maggioranze e i Governi che vengono espressi. Dunque, cercare il giusto punto di equilibrio fra governabilità e rappresentatività, è un obbiettivo che il Parlamento deve raggiungere con buonsenso, tenendo conto sempre e soprattutto dell’interesse generale.
Ed è proprio l’interesse generale che deve prevalere, sia nel ceto politico che in quello burocratico e nella classe dirigente della società civile. Ma non accade di frequente.