PALERMO – Dal gas alle rinnovabili, la Sicilia avrebbe potuto essere l’hub energetico del Mediterraneo. Avrebbe avuto le condizioni ideali per esserlo già oggi, contribuendo a sottrarre l’Italia dalla “sudditanza” nei confronti dei Paesi esteri, in primis della Russia di Putin. Sarebbe stata la “patria” delle fonti pulite, se soltanto gli impianti per la produzione di energia da fotovoltaico ed eolico non fossero rimasti bloccati tra le pastoie burocratiche di Regione e Stato: si parla di qualcosa come 9 mila megawatt in attesa di autorizzazione nelle Commissioni Via/Vas regionale e nazionale. Avrebbe potuto, ancora, rifornire il Paese di una buona quantità di gas se soltanto si fosse realizzato il rigassificatore di Porto Empedocle (e/o quello di Augusta) e se si fosse proceduto a estrarre i miliardi di metri cubi di gas che, secondo il Ministero, si annidano nel sottosuolo isolano. Avrebbe potuto, avrebbe! E invece la nostra regione da anni è sostanzialmente immobile nello sviluppo di infrastrutture energetiche.
“Dal 2018 al 2021 – ci ha raccontato Domenico Santacolomba, dirigente del servizio di programmazione energetica della Regione siciliana, in un’intervista rilasciata lo scorso 7 gennaio – non ci sono stati grandi installazioni o grandi quantitativi di impianti connessi. La crescita degli impianti eolici e fotovoltaici in Sicilia dal 2018 è tendenzialmente pari a zero”. Secondo il report di Legambiente, “Scacco matto alle rinnovabili”, nell’Isola ci sarebbero addirittura 23 mila richieste in attesa, tra pale eoliche e pannelli solari, su un totale nazionale che ammonta a quasi 100 mila, cioè circa un quarto del totale. Un ritardo che rischia di far fallire al nostro Paese gli obiettivi Ue – 70 Gigawatt entro il 2030 – per garantire copertura dei consumi rinnovabili di almeno il 72% del totale rispetto ai livelli di partenza, cioè del 1992. La Sicilia vale il 10% dell’obiettivo, avendo previsto nel suo piano energetico di raggiungere con eolico e fotovoltaico almeno 7 Gigawatt al 2030. Di questo passo non ce la farà mai.
È una di quelle storie tipicamente italiane e ancor più siciliane. Da oltre dieci anni è fermo nei cassetti il progetto di Enel per la costruzione di un terminale per la rigassificazione a Porto Empedocle. Un rigassificatore è un impianto che serve a portare il gas dallo stato liquido (per esempio il GNL) a quello aeriforme e ciò comporta soprattutto un vantaggio: permette di importare il gas attraverso le navi, quindi moltiplicando le possibilità per un Paese come l’Italia – che oggi importa circa il 95% del gas – di acquistarlo all’estero (per esempio da Stati Uniti e Australia).
Il progetto dell’Enel è rimasto fermo a causa delle opposizioni locali, in particolare del Comune di Agrigento che si era rivolto al Tar contro il passaggio del metanodotto che si sarebbe dovuto allacciare alla rete nazionale. I giudici amministrativi, però, hanno recentemente rigettato il ricorso dell’Ente e dunque ad oggi non ci sarebbero impedimenti contro la realizzazione dell’opera. Nel frattempo però sono passati dieci anni. Il progetto originario prevedeva un investimento di 600 milioni di euro che, secondo gli esperti, oggi andrebbe aggiornato con una spesa di quasi un miliardo. Per portarlo a termine servirebbero cinque anni, impiegando quasi mille lavoratori tra diretti e indotto.
Soprattutto, il terminale agrigentino consentirebbe di rifornire il nostro Paese con 8 miliardi di metri cubi di gas all’anno (circa il 10% del fabbisogno nazionale, pari nel 2021 a 76 miliardi di gas secondo i dati del Mite). E questo permetterebbe di ridurre la dipendenza nei confronti della Russia (da cui importiamo 29 miliardi di metri cubi, il 39% delle importazioni totali) e dell’Algeria (da cui arriva circa il 28% del gas che usiamo). Altre piccole percentuali arrivano al nostro Paese dal Mare del Nord (2,4%) e dalla Libia (4,3%) tramite il gasdotto che “sbarca” a Gela, mentre dal 2021 sta crescendo l’importazione dall’Azerbaigian grazie al tanto vituperato “Tap” (attualmente arriva un flusso di circa 7,5 miliardi di metri cubi ma potrebbero raddoppiare nei prossimi cinque anni).
Il rigassificatore di Porto Empedocle è un progetto che si può definire “quasi cantierabile”, in quanto ci sono già le autorizzazioni e, inoltre, Enel nel tempo ha rinnovato tutte le concessioni: serve però una scelta chiara e netta del Governo nazionale affinché si possa avviare in tempi rapidi la realizzazione di un asset strategico. Sarebbe il quarto rigassificatore del Paese; quelli attualmente in funzione sono presenti a Panigaglia (La Spezia) e in due piattaforme galleggianti, una al largo di Porto Levante, in provincia di Rovigo, e l’altra al largo delle coste tra Livorno e Pisa.
Quanto gas ricaviamo attualmente dalle estrazioni? In tutta Italia, secondo i dati del Ministero, nel 2021 sono stati estratti 3,34 miliardi di metri cubi, pari al 5% del fabbisogno nazionale. La Sicilia, in base ai numeri del Pears (il Piano energetico regionale), nel 2020 ha estratto oltre 164 milioni di metri cubi, cioè poco meno del 4% della produzione nazionale, ma potrebbe fare molto di più. Secondo i dati contenute nel Pears, “per il gas naturale, nel 2020, le riserve certe in Sicilia sono state stimate dal Mise in 1.073 milioni di Sm3, quelle probabili in 356 di Sm3 e quelle possibili in 455 milioni di Sm3”. Ma se si allarga il campo anche alle zone marine in cui l’Isola è coinvolta (il Canale di Sicilia, lo Ionio, Il Tirreno) si arriva a stime molto più promettenti: si parla di “7.511 milioni di Sm3 certi, 8.633 milioni di Sm3 probabili e 3.235 milioni di Sm3 possibili”. Un’enorme quantità di gas che non stiamo sfruttando.
Le cose potrebbero cambiare con il Pitesai (Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee) con cui il Mite prova sostanzialmente a superare la moratoria del 2019 sull’estrazione di idrocarburi, puntando, in particolare, sulle prospezioni ed estrazioni di gas in terra e nell’offshore italiano, spingendo per raddoppiare la produzione, portandola a soddisfare almeno il 10% del fabbisogno nazionale. Una scelta strategica che diventa ancora più importante nel mutato scenario geopolitico causato dalla guerra in corso e che segue la scia di quanto sta accadendo in Europa: quattro settimane fa la Commissione europea ha votato a maggioranza la nuova tassonomia verde, cioè la classificazione delle attività economiche che possono essere classificate come sostenibili nell’ambito della transizione energetica e tra queste sono apparse, appunto, il gas e il nucleare, seppur a determinate condizioni.
Nel Pitesai sono indicati i siti in cui sarà possibile l’attività di ricerca e di estrazione di idrocarburi. Tra questi i giacimenti siciliani Argo e Cassiopea sui quali Eni investirà circa 700 milioni di euro, realizzando un impianto per il trattamento del gas estratto che sarà operativo nel 2024 e che consentirà una portata di picco “equivalente a più di sette volte l’attuale produzione di gas in Sicilia e a più del 30% dei consumi di gas della regione”. Inoltre “l’estrazione dai campi offshore avverrà tramite uno sviluppo interamente sottomarino senza emissioni e privo di impatto visivo a mare”.
di Chicco Testa
Presidente Fise Assoambiente
In queste settimane è chiaro a tutti cosa significa non essere autosufficienti in campo energetico. Variazioni improvvise di prezzo, instabilità dei mercati, rischio di black out, ripercussioni importanti su cittadini ed imprese, bassa capacità di negoziare. Il caso energia è semplicissimo da spiegare: abbiamo scelto (la classe politica, ma anche i cittadini) di importare gas ed energia elettrica da altri paesi, perché non abbiamo voluto affrontare i problemi di consenso legati alla produzione locale di energia e di fonti energetiche. Tutto qui.
Più comodo politicamente ed elettoralmente comprare gas dalla Russia (ma anche da Libia ed Algeria) ed energia elettrica dalla Francia, piuttosto che trivellare l’Adriatico e lo Ionio, costruire rigassificatori sulle nostre coste e gasdotti, fare centrali nucleari. Una scelta apparentemente conveniente nel breve periodo ma strutturalmente disastrosa alla lunga, come stiamo purtroppo verificando in questi giorni. Oggi paghiamo i costi del “non fare” degli ultimi 20 anni in campo energetico.
Nel settore di rifiuti succede e potrebbe succedere ancora di più la stessa cosa. Meglio esportare fuori regione o fuori Italia i rifiuti (urbani e speciali) che produciamo piuttosto che affrontare la “fatica politica” di realizzare impianti nei territori: digestori anaerobici, compostaggi, piattaforme di riciclo, inceneritori, gassificatori, discariche.
In questi ultimi anni si è consolidata una classe dirigente ed una opinione pubblica locale e regionale che ha “teorizzato”, nel settore dei rifiuti, la scelta di “non fare impianti”. Una scelta irresponsabile venduta come “sostenibile” proprio con gli stessi argomenti usati dai no triv, no tap e no nuke. Ne possiamo fare a meno e sono inquinanti. Tutte balle. La tecnica comunicativa utilizzata è la stessa. Esportare rifiuti ha lo stesso effetto di importare energia. Sposta il problema altrove, ci illude che il problema non esista. Scegliamo il consenso a breve e speriamo che non succeda nulla. Poi la realtà si impone e la finzione svanisce.
Nel settore rifiuti si sono utilizzate diverse tecniche di falsificazione della realtà. I rifiuti non esistono e tutto si ricicla magicamente (rifiuti zero), ci pensa l’economia circolare (le imprese si portano via tutti i rifiuti perché sarà un business), fino alla più sofisticata strategia del cambio di nome: i rifiuti urbani li trasformiamo in rifiuti speciali in magici impianti e poi ci penserà il mercato (ovvero l’export). Senza dirlo troppo a voce alta.
L’insegnamento della crisi energetica mi auguro illumini decisori politici ed opinione pubblica sul tema rifiuti nei prossimi tempi. Non fare impianti significa soltanto esportare i rifiuti e, finché sarà possibile, usare in modo esagerato la discarica. Prima o poi la realtà si imporrà ed i territori ne subiranno le conseguenze: emergenza rifiuti, costi alle stelle, inquinamento, bassa competitività. Già oggi è cosi in molte zone del Paese. Molte regioni e grandi città esportano i propri rifiuti organici in altre regioni perché non hanno impianti, ed esportano in altre regioni rifiuti indifferenziati o trattati nei famosi impianti di Trattamento Meccanico Biologico (TMB) di cui l’Italia è piena. L’Italia esporta rifiuti urbani e speciali all’estero, anche in paesi “a rischio” e la quota di export cresce di anno in anno. La quota di discarica è ancora molto elevata.
Anche nei rifiuti oggi paghiamo i costi del “non fare” e continueremo a pagarli se non cambiamo rotta. Occorre realizzare rapidamente impianti, sia di riciclaggio (digestori anaerobici, piattaforme) che impianti di chiusura del ciclo (inceneritori, impianti di riciclo chimico e produzione di biocombustibili, discariche). Un programma di ammodernamento infrastrutturale che renderebbe l’Italia autosufficiente a partire dalle singole regioni o macroaree, specie dal Sud.
Fare tutti gli impianti necessari per rifiuti urbani e speciali renderebbe il settore sicuro, garantirebbe prezzi e tariffe stabili, ridurrebbe le emissioni inquinanti ed i gas serra legate al trasporto e ad un eccesso di discarica, renderebbe più difficile l’infiltrazione di organizzazioni criminali nelle filiere dei rifiuti. Lo dicono i procuratori antimafia: la mancanza di impianti e catene lunghe di intermediazioni legate alla mancanza di impianti di prossimità, sono i principali terreni di coltura delle ecomafie. Impariamo qualcosa dalla drammatica attuale esperienza della crisi energetica. I costi del non fare prima o poi si pagano.