Era il 26 luglio 1992 – una settimana dopo la strage di via d’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – quando il corpo senza vita di Rita Atria fu ritrovato sul marciapiede antistante il palazzo in cui viveva.
Rita Atria, “la picciridda”, nel novembre 1991, all’età di 17 anni, si rivolse alla magistratura in cerca di giustizia per gli omicidi che avevano colpito la sua famiglia. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu il giudice Paolo Borsellino, al tempo procuratore a Marsala), al quale si legò come a un padre.
Trent’anni dopo, un libro-inchiesta ricostruisce la storia di Rita Atria, abbandonata dalle Istituzioni, le stesse che avrebbero dovuto prendersi cura di lei. QdS ne ha parlato con Nadia Furnari, coautrice assieme a Giovanna Cucè e Graziella Proto, del libro “Io sono Rita – Rita Atria: la settima vittima di via d’Amelio”, edito da Marotta e Cafiero editori.
Quando e perché nasce “Io sono Rita”?
“Quando? Forse dal primo giorno in cui ho appreso della storia di Rita. Probabilmente da quei viaggi a Partanna e dal suo diario che ho letto per la prima volta nel libro di Sandra Rizza, “Una ragazza contro la mafia”. Raccontare tutta la genesi sarebbe veramente troppo lunga però, se proprio devo dire da dove è cominciato concretamente tutto, la storia del libro nasce proprio in viale Amelia a Roma di fronte al civico 23 un 26 luglio di qualche anno fa. Una donna si avvicinò a noi e ci raccontò di quel giorno. Poi se ne aggiunse un’altra ad arricchire il racconto e a dire una frase che mi fece sobbalzare: ‘Abbiamo guardato su e la tapparella era quasi abbassata’. Io conoscevo un’altra verità totalmente incompatibile con una tapparella quasi abbassata”.
“Così mi sono guardata con gli altri dell’associazione e con Graziella Proto de ‘LeSiciliane’, che aveva già scritto su Rita un articolo inchiesta qualche anno prima, e da quel momento è stato chiaro che quello che io ho avuto sempre dentro come sensazione alla fine si stava materializzando. Lì, quindi, è stato il vero punto di svolta perché fino a quel momento, per anni, io stessa mi ero affidata solo alle narrazioni ufficiali, facendo riferimento solo a poche testimonianze nelle quali avevo riposto tutta la mia fiducia, senza cercare veramente Rita, la sua storia, le sue sofferenze, tutti i suoi affetti, i suoi amici e quindi anche la verità sulle giornate romane”.
“Ecco, così nasce “Io sono Rita”. Avere accanto una giornalista come Graziella Proto, un avvocato come Goffredo D’Antona e un’associazione che fa del concetto di gruppo il suo motto ha fatto la differenza… e poi la grande professionalità di Giovanna Cucè, anche se arriva successivamente”.
Ci vuole raccontare l’esperienza di scrivere un libro a sei mani? Che rapporto c’è con Giovanna Cucè e Graziella Proto, che hanno scritto con lei questo lavoro?
“Con Graziella ci conosciamo dal 2006 quando venne a intervistarmi per ‘LeSiciliane-Casablanca’. Da quel momento non ci siamo più lasciate e, nonostante siamo donne dal temperamento e dalle storie diverse, abbiamo fatto di questa nostra diversità una ricchezza. Giovanna è stata l’unica giornalista a raccogliere il senso del nostro comunicato stampa del 2020 quando, dopo aver acquisito le carte del fascicolo romano sulla morte di Rita, abbiamo ritenuto opportuno diramare un comunicato stampa come ‘Associazione Antimafie Rita Atria’ e come testata ‘LeSiciliane’ in cui esprimevamo sconcerto per le mancanza di indagini approfondite e accurate sulla morte di Rita”.
“Giovanna Cucè decise di venire al cimitero di Partanna nel giorno in cui l’associazione, con un rito quasi privato, ogni anno, porta un fiore a Rita anche per rinnovare un impegno. Giovanna e il TG1 decisero che quei dubbi meritavano uno spazio e quindi parlarono di Rita e dei nostri dubbi. Ne seguì un silenzio assordante. Nessuna reazione, nessuno voleva saperne di più. Così abbiamo capito che non solo quel libro si doveva fare ma che eravamo sulla strada giusta”.
“La presenza di Giovanna era quella visione non ‘condizionata’ dal vissuto degli anni ’90. Così ho proposto a Graziella l’estensione del gruppo e lei non ha avuto nulla in contrario. Un libro si scrive ma si pensa soprattutto e quindi non sono state le sei mani la grande scommessa ma la diversità dei vissuti e delle visioni generazionali”.
Un vero lavoro di squadra, quindi…
“Ognuna di noi ha apportato contributi tra loro non sovrapponibili e le diversità si sono incastrate come in un puzzle e anche se, naturalmente, non siamo state sempre in sintonia su alcune letture, siamo riuscite a lavorare in armonia perché questo è essenzialmente un libro-inchiesta che si basa su fatti e documenti cercati nelle procure, nei tribunali, negli archivi di Polizia Giudiziaria, nei ministeri, nelle scuole, e via dicendo e non su letture personali”.
Quanto è durato il lavoro di ricerca di questo libro-inchiesta? Avete incontrato difficoltà?
“Come ho spiegato prima, ognuna portava con sé la propria storia personale e professionale e quindi quel lavoro di ricerca possiamo racchiuderlo in circa tre anni, compresa la prima fase quando abbiamo chiesto il fascicolo alla Procura di Roma. Nessun problema particolare solo tanta burocrazia, la necessità di tante richieste e a volte qualche reiterazione di richiesta, attese delle risposte… eravamo in piena pandemia e i problemi spesso erano legati proprio all’accesso agli archivi”.
Esiste quindi una narrazione diversa da quella attuale?
“Diciamo che, a partire dalla morte di Rita, la narrazione è diversa. Noi abbiamo trovato una storia che non coincideva con quella che anche noi stessi avevamo raccontato finché non abbiamo iniziato a porci seriamente domande e a cercare risposte che avessero riscontri oggettivi. Per esempio, sulla morte di Rita io sapevo che si era buttata ‘a palombaro’, impossibile con una tapparella quasi chiusa. Ma non voglio soffermarmi su quest’aspetto perché lascio a chi leggerà il libro decidere se fermarsi a ciò che è stato finora detto o porsi qualche domanda su come, invece, potrebbero essersi svolti i fatti in base a quello che ci raccontano le carte”.
Si tratta, senza dubbio, di un libro sulla storia di Rita Atria che ha suscitato opinioni contrastanti. A suo giudizio, da dove derivano?
“Guardi, su questo aspetto preferisco non esprimermi perché, come spesso accade in questo Paese, anche questa volta si è finito per declinare tutto sul piano personale, evitando di focalizzarsi sulle risposte ai quesiti che abbiamo posto. I motivi bisogna chiederli a chi ha sollevato i polveroni, a chi ha chiesto il sequestro del libro e a chi ha addirittura ritenuto che fosse giusto il ritiro del documentario su Rita Atria di Giovanna Cucè. A tal proposito, vi consiglio di vederlo: è disponibile su RaiPlay dal 17 luglio dello scorso anno e il titolo è ‘Rita Atria – la settima Vittima’”.
In seguito all’uscita di un libro-inchiesta c’è, inevitabilmente, un dopo che spesso è legato ai motivi che hanno portato alla sua scrittura. Oltre alla sacrosanta ricerca della verità e della giustizia, è possibile ipotizzare un percorso che possa portare alla riapertura delle indagini, anche alla luce del lavoro di analisi che avete compiuto?
“L’avvocato Goffredo D’Antona su mandato della ‘Associazione Antimafie Rita Atria’ e della sorella di Rita, Anna Maria Atria, ha presentato alla Procura di Roma una richiesta di riapertura delle indagini a giugno del 2022. Siamo in attesa. Aspettiamo che, chi di competenza, si esprima sul contenuto dell’esposto”.
Possiamo ipotizzare che Rita Atria “sia stata suicidata”?
“Oggi non si può escludere nulla, alla luce di quello che abbiamo trovato. Posso solo dire che non c’è nessuna prova che Rita si sia suicidata. La narrazione suggestiva attorno alla sua morte pare risultare priva di fondamento in base a quello che abbiamo trovato e descritto senza aggiungere nessuna interpretazione personale. La risposta è, quindi, che oggi non possiamo escludere niente, ma lasciamo a chi di competenza trovare le risposte”.