I CARE A LOT
Regia di J Blakeson, con Rosemund Pike (Marla Grayson), Peter Dinklage (Roman Lunyov), Dianne Wiest (Jennifer Peterson).
Usa 2020, 118’.
Distribuzione: Amazon Prime Video
Marla Grayson truffa degli anziani fragili con l’aiuto di medici compiacenti e della fidanzata tuttofare, secondo un piano che sembra infallibile: referti che determinano l’incapacità di intendere e di volere, riconoscimento della tutela legale (chissà perché da parte sempre dello stesso giudice, più o meno l’unico nel film a non percepire l’aura mefistofelica della donna), internamento dei malcapitati in case di riposo che sembrano lager e infine vendita di ogni loro bene per andare all’incasso con fatture a quattro e cinque zeri. Tutto ciò ovviamente fino a quando Marla non metterà gli occhi addosso all’anziana sbagliata…
Voce off, uso amorale del ralenti, cinismo esibito, filosofia spiccia. Il campionario retorico con cui il regista inglese J Blakeson (La scomparsa di Alice, Creed) rappresenta e condanna la società occidentale post-ideologica non è certamente tra i più originali, anzi oggi – in piena crisi del modello culturale antropocentrico – rischia addirittura di rasentare l’anacronismo.
La spasmodica attenzione agli arredi, ai vestiti, alle case, ai gioielli, a tutto ciò che rimanda idealmente al sogno edonista e capitalista che la pandemia, la crisi climatica, la politica e soprattutto la gente (l’America che volta le spalle a Trump) sta spazzando via lasciando più di un’incognita sul futuro, è una rappresentazione a due dimensioni di un contesto sociale che non trova alcun riscontro con la realtà, proprio come bidimensionali sono i profili dei personaggi, perlopiù totalmente privi di umanità ma a ben vedere disegnati senza alcun approfondimento psicologico, archetipi funzionali a un’azione che prevede la riproduzione di cliché di un genere ormai appannaggio della serialità.
Gelida e respingente come poche, Rosemund Pike fatica non poco a trovare coerenza nei panni di un avvocato costretto dalle esigenze del copione a trasformarsi in una sorta di Nikita bionda. Come pure ogni riferimento alla tradizione del cinema della crudeltà e alle teorie filosofiche della banalità del male frana in maniera irrimediabile in un finale prevedibilmente moralistico che abbraccia anche lo stereotipo narrativo del contrappasso e uccide ogni speranza rispetto alla capacità (volontà?) di affrontare i temi sociali, esistenziali, filosofici esposti in modo adulto.
Voto: ☺☻☻☻☻