Dip non aveva dormito bene la notte precedente. Sentiva un ronzio. No forse era proprio un rumore di fondo nella testa.
Un rumore sordo, di vuoto metallico. Era sempre così quando premoniva un accidente, che per lui era quasi sempre un incontro con il femminino apparire.
O forse erano i gamberoni di Mazara, o quantomeno spacciati per tali, della sera precedente. Ma lui era più propenso che fosse “l’incontro”. In effetti non aspettava qualcuno in particolare, a meno che.
In effetti doveva arrivare Salvo il girgentino, accompagnato da quel noto regista franco-boero residente a Trastevere, tale Jean de la Vallée. Erano di passaggio in Sicilia. Era per loro organizzata la cena di quella sera. Eppure la testa gli doleva per quel metallico rimbombo. Stava incocciando il cous cous, lo avrebbe cucinato alla maniera magrebina.
Dopo i gamberoni della sera precedente aveva deciso carne per la serata. Dip si sentiva carnale quella sera. Solo il gelsomino ammorbidiva gli impulsi di un ormone che inopinatamente cresceva come un alien dentro di lui. Nel frattempo la fida Spampi, pettegola etnea di un giornaletto cult, tagliava un melone d’inverno sotto le sue direttive e lo condiva con zucchero, vodka e mentuccia. La mentuccia era fondamentale nella cucina di Dip. Mentuccia e cannella, un bilanciamento dei sensi ineludibile per la sua filosofia culinaria. Si perché per lui non era gastronomia era gastrosofia. Aveva uno stile hegeliano nei piatti, antinomico, tesi antitesi e sintesi. Gli ospiti bussarono alla porta della cucina affacciata sulla balata della tonnara. Lui la vide è capì. Il rumore nel cervello smise di colpo. Non era più necessario. L’avviso era arrivato.
L’accidente, quello che temeva, per cui si era isolato in quella landa meridionale, era lì davanti a lui, bruno, dalla bocca promettente e dallo sguardo vago ed al contempo curioso.
Dip era inusitatamente al sole. Stava letteralmente “squarando”. Contemplava con ottusa ostinazione l’incessante lavoro di un formicaio dietro casa. Avrebbe voluto essere una di loro, operosa, immutabile operaia di un destino predeterminato senza sorprese. Una routine ineluttabile. Invece lui, di ineluttabile, aveva solo quella testarda voglia di farsi del male. Aprendo finestre dell’anima a quelle api leggiadre e che pungevano e poi sparivano, portando via il prezioso polline di cui guardava malinconicamente il costante diminuire. L’ultima delle quali, Asia, la fotografa dal vestitino parisienne, la sera prima gli aveva, come solo loro sanno, con lievità fare, detto
Come un compagno? Che cos’è un compagno? Un compagno di scuola delle medie? Un compagno di doppio misto a tennis? Un compagno di sezione del nuovo partito comunista italiano?
O intendeva un uomo ? Uno con cui svegliarsi accanto la mattina e da sfiorare con un bacio che sa dell’alito della notte.
Ma come? Per giorni appassionati fatti di messaggi, aneliti, similitudini, hai sparso meraviglie, e poi?
Erano state giornate intense per catturare la luce in tutte le sue sfaccettature. Lui aveva amato guardarla nei suoi gesti con la macchina fotografica. A lui sembrava che potesse finalmente capire la grazia. Gli sguardi erano carichi di significati reconditi o perlomeno a lui sembravano tali. Dip l’accompagnava con un sorriso ebete stampato sulle labbra, facendole conoscere scorci di una bellezza ancora intatta. Pantani con uccelli migratori verso Ispica. Le dune africane di Carratois. I vigneti delle colline dolci di contrada Buonivini.
Ci rimango male una sega, pensò Dip. Io ci rimango di merda. Lasciamo stare. Sempre così. Se una lo prendeva, tra il neurone e il testosterone, poi a lui toccava la parte del coglione.
E comunque lei, si consolava Dip, come nella favola di Esopo, mica era una vera fotografa. Era una fotografa, per quanto brava, di matrimoni. Non una corrispondente dalla guerra in Siria, o realizzatrice di patinate foto per Vanity Fair.
Chissà però quanta varia umanità in quegli scatti. Ai matrimoni si appalesano tutte le sfumature della pietas. Lo sguardo perduto nel vuoto dello sposo. Il fasto gioiosamente apparente delle due famiglie, che soppesano, tra occhiate in tralice tra le fila, le differenze di censo e ruolo sociale, comparando stoffe, couture e soprattutto scarpe. Ad un matrimonio la scarpa diventa metro di giudizio universale. Se al posto di un Manolo o di un Jmmhy Chu, o financo di un Casadei, calzi al piede un anonimo sandaletto, prega che un pollo tu lo abbia già trovato perché il tuo destino tenderà ad infausti presagi.
E finalmente il potente obbiettivo di lei cattura l’entrata dell’unica protagonista. Si abbassa la nostra dispensatrice di immagini immortali per cogliere la mascella volitiva della donna, unica, se non ci sono delle amiche stronze ed invidiose, in bianco. L’impareggiabile meringa. La sposa, in quel momento in cui era meglio che Mehendelsonn avesse avuto altro “chiffare”, incede con il passo di carica 7° cavalleria al rallenty, e si pone fiera al banco di lavoro. Non so se avete notato ma ai matrimoni il banco degli sposi rappresenta un banco di lavoro vero e proprio. In cui la metalmeccanica Bianco vestita, salda a sé il fumodilondra agghindato, l’attore non protagonista, quasi sempre affetto da raceudine o da rinculo testicolare.
Dip si stava focalizzando su di Lei. Il punto era Lui. Ora dopo questa ferale, incongrua e, diciamolo, volgare notizia dell’esistenza di un essere, forse pluricellulare, denominato “compagno”, che fare?
Era meglio bersi un ultimo vodkatini e cercare un oblìo notturno. Come diceva Rossella, domani è un altro giorno.
Era commovente. Un’alba come poche, e ne aveva viste parecchie, considerando la sua insonnia. Il pantano davanti a lui era gremito di fenicotteri rosa, gabbiani infaticabili già sorvolavano il mare sullo sfondo a caccia di cibo.
Mancava solo la sinfonia del nuovo mondo, di Berlioz crediamo, e Dip sarebbe sublimato. Aveva proprio bisogno di questa riconciliazione, del perdono del Creatore.
Doveva allontanare il pensiero di Asia, di Asia e il suo compagno, del compagno di merende (questa immagine delle merende lo faceva impazzire) e basta.
La testa gli doleva e la lingua era impastata. I vodkatini erano stati molti, forse troppi.
Ora qui non parliamo di un cocktail qualunque ma di sua maestà. Tanto è vero che il suo maggior aficionado ne è il suo fedele servitore. James Bond.
Famosissima la frase “agitato non mescolato”, “don’t shaked”.
Dalla preparazione di questo cocktail capisci se davanti hai un barman o un improvvisato banconista.
Prima di tutto va preparata la coppetta martini, se te lo preparano in altro bicchiere cambia bar.
Si riempie la coppetta martini di ghiaccio e la si fa raffreddare. In un tumbler si mette ghiaccio e martini drye si agita con un cucchiaio. Si scola sapientemente e si versa la vodka.
Ora qui si aprono dispute tra gli amanti della dura e russa Stolichnaya e gli amanti della più morbida Belvedere. Io preferisco la Beluga.
La vodka con il ghiaccio intriso dal martini si sublima. A questo punto usando lo scolino adatto si versa nella coppa martini raffreddata.
Non si va l’oliva, quella serve con il martini cocktail fatto con il gin.
Si taglia da un limone una scorzetta e dopo averla leggermente spremuta sulla coppa si lascia cadere dentro.
Magari non vi sentirete 007, non avrete smoking e Walter PPK al seguito, ma dopo il primo sorso vi subentrerà immediatamente uno stato di peace & love. La tolleranza del mondo si impossesserà di voi.
E potrete affrontare gli altri con condiscendenza.