Cap. 6 – Giuggiulena
Ortigia, la Manhattan di Siracusa, mattina presto.
Quell’alba aveva una luce tremula, il sole nascente sbirluccicava su nuvole cariche d’acqua, pigre e imbarazzate dopo un’estate infinita, indecise come gli ospiti che si vergognano di iniziare a spazzolare un buffet di dolci. Era il giorno dei morti in un’isola intrisa del culto della grande meretrice e a Dip invece dava sensazioni diverse. Sopite ma vitali.
La visione dello specchio d’acqua attirava il suo sguardo verso sud dove una barca di pescatori da “conzo” rientrava verso fontane bianche. Lui provava una sensazione da partoriente. Conosceva quella sensazione, gli era già capitata, si sentiva le budella annodate alla orta, la sua pancia stava esplodendo come la testa di quel figlio di buonadonna di Zeus quando fuoriuscì Atena. Anche a lui stava nascendo da dentro qualcosa. Una voce di ragione gli sussurrava che era stata quella maledetta pasta, cozze e fagioli, della sera prima. Oppure quell’inverecondo risotto al mango e zucca carico di spezie che quel dandy new age del suo amico Arezzo di Puntasecca aveva spadellato dentro una zucca di halloween. Ma sti nobili decaduti non potevano reinventarsi esercenti di pompe funebri invece di ammorbare le cucine con perifrasi da Chef?
No, Dip aveva l’intima convinzione che era altro. Era il Vento del Sud. La notte prima aveva soffiato forte tra le rughe della giudecca e gli aveva soffiato sul viso un afflato caldo, avvolgente. Aveva la sembianze di un’amazzone guerriera bizantina dalle caviglie nervose e da un naso pretenzioso alla francese. Ma strano caso del destino era bionda. A lui non piacevano le bionde.
“Mi chiamo Lena” disse, puntando su di lui due occhi da basilisco. “Lena da Filomena?”
Chiese Dip, pensandosi immediatamente deficiente
“No che minchia dici?”
E li confermò che la deficienza non bastava.
“Da Giuggiulena. Come la pietra di queste case”.
Lui lo capì subito. Non aveva speranze, impanato e fritto come le sarde (buone le sarde fritte soprattutto se poi passate in cipollata agrodolce con un pò di odori). Era una ninfa? Uscita gocciolante e giuggiolante dalla fonte cara ad Archimede. O era con quel piglio fiero un Erinni?
No era semplicemente una gno…, ops, una Donna. Di quelle antiche, ataviche, antinomiche a questi tempi, ma non a quelle latitudini. Giuggiulena.
Colpito e affondato. Quella torsione di intestini era quello. La lotta interiore tra istinto di sopravvivenza, sito nella sua pancia e la testa, di cazzo nel suo caso, con arbitro un cuore di cane randagio. Sapeva che nonostante le ferite, nonostante le prudenze, nonostante questo sopravvalutato libero arbitrio il suo destino era spingersi lì dove era lei. Orione era sopra la sua testa indicando la direzione come sempre nei momenti topici, tropici, fobici, e va bè in quei momenti.
Lena era un fuoco di emotività ed idee. Una ne pensava e cento ne faceva. Era una furia su tutto il suo mondo. Un’Hidra dalle cento teste. Lo fece scorrazzare nel suo mondo fatto di pietre calde al tramonto e grotte sotterranee ospitanti bagni ebraici. Croci normanne e simboli esoterici. Piramidi e compassi compassionevoli. Più che una storia fu un turbillon.
Dip fu ingurgitato, digerito e vomitato in un men che non si dica. E la ninfa prosegui il suo cammino di mangiatrice di destini maschili.
Il Beccadelli di Boulogne glielo aveva detto sulla sua terrazza di Marzamemi dopo un mese di turbinio amoroso conclusosi con il suo solito stupore afflitto da minchionaggine.
Erano tutti al solito da lui. C’era la Spampi, l’idraulica biondina, quel debosciato di Piccione che si era portato appresso una messicana soprannominata Frida ma il cui nonno era di Furci Siculo. C’era anche l’elegante avvocato Giannotti con panciotto di lino bianco e giacca d’ordinanza. Era venuto insieme ad una sua collega, secca e bona, tale Minou. Si proprio come la gattina degli aristogatti. Pare che sua madre partorì proprio mentre al cinema Capitol di Messina davano quel film. Anche se altre voci dicevano fosse un porno. Vatti a fidare delle puerpere.
“Gionni quella non è foemina per te. Quella ha bisogno di un maschio servente e trottante, al suo ritmo vertiginoso da ballo della Tarantola. Noi non siamo così caro Gionni. Noi siamo Ciollari”
“Di che straparli Vincent? È una delle tue teorie pelagiche per caso?”
“Caro Gionni non è teoria. È storia. Ed antropologia. E giusnaturalismo. Io e te siamo antichi, non antiquati, ancora c’è la smazziamo, almeno parlo per me. Noi siamo come i ciollari, i pesci che ti ho fatto conoscere a Lampedusa.”
“E che c’entriamo noi con dei pesci. Tra l’altro siamo Bilancia entrambi”
“Gionni dietro al ciollaro c’è una profonda consapevolezza. Che io chiamo Ciollitudine. Questa filosofia trae linfa dall’osservazione naturale riportandoci ai presocratici.
Tutto nasce dalle mie immersioni all’isola dei Conigli.
Lì, in quel luogo che ha ispirato Modugno, ho osservato questo tipico pesce pelagico.
Il Ciollaro non nuota come gli altri pesci. Ha uno stile tutto suo. Gironzola senza una meta predefinita, in cerca di una forma di personale soddisfazione. Spesso esercita questo movimento ondivago intorno alle turiste che si avventurano nelle limpide e famose acque dell’isola.
Il Ciollaro non cerca cibo, non ha ansie, ma si nutre per diletto, con fare pigro ed indolente.
Da questa osservazione della natura è nata, dopo lunghi studi, la teoria del Ciollaro o ciollitudine
Come il Ciollaro, il Siciliano è un popolo sazio di Bellezza e di Storia. Pertanto non è più spinto da una fame di essere o avere.
È già stato ed ha già avuto.
In Tomasi di Lampedusa, nel Gattopardo, questo è molto chiaro e ben descritto dal Principe di Salina al suo interlocutore Chevalier.
Pertanto il godimento di alcuni siciliani, come noi due, è dato da un ondeggiante movimento, senza un fine preciso, senza intenti predatori. Spilucca la vita a piccoli morsi, cercando lo zucchero dei canditi o le morbidezze carnali.
Senza fretta perché non c’è motivo. Senza ansia, perché tanto zucchero e tanta bellezza ha assaggiato. Con un passo double, lento, ed a tratti sbilenco.
Chi tanto ha visto ed assaporato non corre e non cerca rapide soddisfazioni.
Ha imparato l’arte del “Ciollìo”. Cerca l’oblìo.
Pertanto i tipi come noi non ballano né tarantole né balli di San Vito. Quella non era femmina per te. A te ci vorrebbe una gatta bruna, morbida ed accudente come questa amica del Giannotti.
Che peraltro ha delle “minne” che ti turbano alquanto”
Dip imbarazzato tolse lo sguardo dal seno di Minou e si industriò di servire a quel manipolo di scrocche la minestra all’aragosta.
Non solo Piccione si era portato un’intera combriccola. Ma non si era accontentato di costardelle arrostite o totani fritti. Aveva preteso aragoste.
“Gionni sei un cretino. Non ti avevo chiesto aragoste! “ gli mormorò Piccione in un orecchio.
“Ti avevo detto porta due zoccole! Intendevo qualcuna delle tue amichette di spasso catanesi. Sei proprio babbo! “
Per i foresti dobbiamo specificare che quel particolare crostaceo altresì denominato cicala a Catania viene appellato zoccola. Ci vuole il vocabolario da queste parti.
“È comunque la minestra l’ho fatta”
Disse Dip. ‘La buttiamo? “
Ho chiesto il permesso ai Marettimani gelosi custodi della ricetta.
Dunque: cominciamo
Una carota, un gambo di sedano, una cipolla bianca grande, un bel ciuffo di prezzemolo e una manciata di mandorle.
Triturato il tutto soffriggere con un po’ d’olio extravergine, sfumare con pochissimo vino bianco e poi aggiungere la polpa della coda e la testa di un aragosta di un chilo circa. Fare andare per una decina di minuti e aggiungere 4 cucchiaiate generose di estratto di pomodoro. Far cuocere a fuoco lentissimo altri 10 minuti, quindi aggiungere acqua e una stecca di cannella. Da questo momento lasciare sobbollire per circa 3/4 d’ora. Nel frattempo far bollire le aragoste di accompagno (mezza aragosta per porzione) in acqua salata con l’aggiunta di una bella mestolata del brodo in cottura. La pasta – rigorosamente spaghetto spezzettato – va cotta al dente in acqua salata a parte. Quando il brodo è pronto, condirlo con 4 spicchi d’aglio prestato e un trito di prezzemolo, versarci dentro la pasta e servire caldissimo con le aragoste di accompagno già divise a metà.
Suggerimenti:
Per spolpare l’aragosta immergerla viva in acqua bollente per 30 secondi e tirarla su;
Per ottenere un pesto d’aglio davvero cremoso e senza grumi aggiungere del sale e pestare l’aglio insieme, si disferà completamente.
Se come Dip vi trovate sulla parte orientale dell’isola e non trovate l’aragosta delle zoccole vanno benissimo.
E non equivocate al solito vostro.