Stava guardando la palla rosso fuoco del sole immergersi nel mare davanti a se. Dip non sapeva perché aveva accettato quel lavoro notturno. Gli pareva una buona idea per distrarsi e non rigirarsi nell’afa di quelle notti in un letto sfatto e bollente di solitudine.
La pesca del totano era una faccenda notturna fatta di sapienza di fondali, eclissi di luna e crudeltà.
I totani quando li buttavi sulla barca gemevano come neonati. Ci voleva stomaco e assenza di principi vegani.
Doveva distrarsi da Lei.
L’aveva conosciuta qualche mese fa. Tra il tufo di rovine ancestrali della sua isola.
“Mi chiamo Zahir” le disse. Cercando di farsi spiegare un opuscolo turistico pieno di astrusi regolamenti. Era in una pattuglia di turisti spaesati in luoghi ostili. Non c’era niente di più ostile ai turisti che la bellezza oscena della trinacria.
“Non capiamo come si può entrare in questo sito e soprattutto, tu, chi sei? Il custode? “
Dip non riusciva a rispondergli. Si era disperso in uno sguardo profondo e scuro, contornato da un cipiglio che poteva mutare dal severo al docile in un nonnulla.
Aveva delle leggere borse sotto a quegli occhi bellissimi, sintomo di carattere ansioso ed insonnie notturne.
Dip era anni che non dormiva più. Rimpiangeva quei sonni infantili, pieni di futuro e immuni da fardelli e morsi.
Morsi e non rimorsi, leggete bene.
Lui non aveva rimorsi. Oddio non è che avesse fatto tutto bene, ma avrebbe rifatto tutto, tranne..
“Io non sono il custode” le disse “tranne che del mio tempo”.
Lei lo guardo come avesse visto un Ogm, stupita di essere lì. In quella terra affascinante ed ostica.
Dip pensò che non aveva visto muoversi sul suo cammino una creatura più incantevole.
Era proprio l’incanto. Ora capiva il significato di quella parola sconosciuta a Dip che come Perseo aveva dominato la Gorgone femminile.
Quando la guardava si immobilizzava ed ammutoliva, unica espressione un costante sorriso idiota, alla principe Miskjn. In poche parole era innamorato.
Zahir veniva da oriente, e si scoprì che non era una turista, ma che era venuta per studi antropologici sulla sua isola.
Aveva una pelle ambrata, capelli scuri e carattere fiero. Apparteneva ad una razza nuova per un neolitico come Deep.
Parlare con lei era sempre uno stupore per lui che aveva visto tutto e che ora si concedeva un buen ritiro in quella parte di isola che confluiva nel punto rivolto a sud.
Parlarono per giorni. Spesso solo incrociando sguardi, sfiorando mani.
Lei aveva il potere di calmare la mareggiata di inquietudine che Dip aveva dentro di sé, da sempre.
La sua bellezza fiera e dolce al contempo aveva la classicità degli elleni. Era Penelope. La meta originaria.
Era l’oblio dolce a cui aspirava l’itacense dentro di lui, che per anni lo aveva condotto nel suo vagabondare da una punta all’altra di quel continente, come descritto da Maupassant, chiamato Sicilia.
Poi Lei partì. Doveva farlo. Il vento dell’est la costringeva a tornare da dove era venuta.
“Tornerai?” Le chiese un Dip irriconoscibile per quei mentecatti dei suoi amici. Ma finalmente vivo.
“In un mondo parallelo non me ne sarei mai andata forse”.
Lui se ne andò via, di schiena, guardandola, capendo finalmente il recondito significato della canzone di Baglioni. Con la camicia a nido d’ape intrisa di lacrime e fard.
Quel destino Cinico e baro faceva si che non aveva più sonno del tutto.
“Andiamo a pesca..” disse al suo amico Peppe ing. Piccione. E si issò sul gozzo.
Piccione erano anni che sopportava gli umori ma soprattutto i “sapori” di Dip. Quella cucina umorale e speziata frutto incostante di passioni e depressioni.
Non si capiva se Dip cucinava meglio in fase Up o in versione Down. Ma soprattutto non gli riusciva mai, ne sù ne giù, la paella.
La spagnola da cui l’aveva imparata doveva avere antenati calabresi perché risultava sempre troppo piccante. Come si chiamava? Evita Spampas, annunciatrice di telemajorca.
Piccione aveva pensato alla musica. Si era portato a bordo un megastereo di quelli tamarro vintage. E la barca profondeva le note di Drupi, cantante preferito di quel debosciato.
Tra l’onda lunga e la musica coatta Dip precipitava nella nausea.
“Spegni quel cesso di musica. Prima che ti butto a mare a pasturare i pesci!!!”.
E vomitò sul parapetto.
“Compare unni capisci nenti i musica. Chistu è un giganti” si risentì il Piccione ing. Peppe prima di vendicarsi mettendo il greatest hits di Alan Sorrenti.
Ormai tra la depressione per la lontananza di Zahir e la nausea musicale Dip si convinse a tornar al porto di Marzamemi dove li aspettava la terza componente di quel trio di sconclusionato. L’idraulica biondina.
Era in pensiero per lei Dip. Mai lasciar sola l’idraulico. Si metteva sempre nei guai. Se non era un barman giamaicano, era certamente uno skipper serbocroato in fuga dall’Interpol.
L’unica certezza era la pasta totani e patate e lardo di colonnata che la sera avrebbero mangiato i nostri tre. Solo cucinare per gli amici alleviava l’indole inquieta di Dip.
La terrazza odorosa di gelsomino e citronella (magico espediente della zia Carmencita contro gli zappagliones giganti dei vicini pantani) avrebbe accolto la solita banda di sbandati.
Totani ne avevano a cassette! Il menù era certo. Pasta al sugo di totano, totani in umido con favette e piselli aromatizzati al finocchietto, totani ripieni di piacentino e mollica alla brace. E per finire il famoso gelo di mellone all’acqua di rose, cannella e infuso di jasmine. Cavallo di battaglia di questo Cracco di provincia carico di storie, panzane e panzanelle malinconiche che gli scivolavano quando i vodka martini preparati dal fido Vincent Beccadelli di Bolougne raggiungevano il giusto mix.
Gli amici sono tutto si dice. Ma Lui non ricordava più nulla se non la dolcezza dell’oblio di Zahir.
Dip pensava spesso a questo sentimento inafferrabile che si chiama Amore. Che lui provava per donne per lui improbabili.
Certo l’amicizia sarebbe più semplice. A volte più appropriata, più opportuna. Ma alcune persone non possono essere amici. C’è una molla che li spinge che sfugge al loro controllo.
Non hanno questo nel loro destino. Hanno altro.
Dip rifletteva su quanto era bella quella sensazione che ti da avere una persona che ti scorre nell’arteria che collega il cuore al cervello. Che ti fa guardare in alto e vedere che il cielo, quando arriva l’estate, quando il brivido caldo ti scalda, il profumo della menta ti prende, ti raggiunge nel tuo profondo.
La verità è che per l’amore ci vuole un ardente pazienza.
Solo la pazienza potrà farti raggiungere la felicità.
Ma cos’ è una “ardente pazienza”? Una contraddizione in termini? Una mission impossible?
È magmatica come un vulcano.
Come Stromboli, un vulcano attivo che pazientemente si controlla perché ama ciò che ha attirato intorno a sé e vuole con loro la felicità di un ecosistema che si nutre reciprocamente.
È quando sei innamorato, veramente, di qualcuno di cui rispetti i tempi, le condizioni date da un’esistenza precedente all’incontro.
Devi, controllando il vulcano interiore, il magma di passione, di voglia di condivisione, permettere all’altro di venirti incontro, di non spaventarsi di provare sentimenti, di fare chiarezza dentro le naturali confusioni.
Pazienza, pazienza, nonostante il fuoco che ti brucia dentro perché sei pronto perché il tuo istinto, il tuo corpo, la tua testa gira veloce, sempre più veloce.
L’amore, se amore deve essere, si raggiunge in due, spesso, a volte, partendo da distanze stellari.
Se vuoi la felicità devi aspettare con ardente pazienza che l’altro dipani orgoglio e pregiudizio, coniughi ragione e sentimento, recuperi, come nel secolo più vicino al mio sentire, la giusta scansione del tempo in cui vivere la storia di due anime che si riconoscono.
Popper sosteneva che la missione di ciascuno è risolvere i problemi che la vita ci mette davanti. Quindi non sfuggirli e non nascondersi dietro alla paura dell’errore. Prima sbagli prima impari, e ricominci meglio.
Però Dip sbagliava troppo spesso.
Ci azzecca a più con il sale, non sbagliava mai in quello, che con l’amore.
Se ne doveva fare una ragione, forse per questo era diventato gastrosofo. Lui era convinto che l’amore non fosse una cosa di cuore. Quello serviva per pompare sangue a quel coso sottostante imprescindibile. Lui riteneva che l’enzima dell’amore fosse nascosto tra l’intestino tenue e quello crasso. E la cucina servisse per preparare lo stomaco allo sconvolgimento gustativo erotico.
Se non hai mai assaggiato un Habanera come puoi accostati ad una donna focosa. Se non conosci l’agrodolce di una caponata che ne puoi capire delle pene amorose?
Se hai assaporato un timballo di anelletti in crosta di melenzane fritte allora sei pronto alla pienezza di un sentimento pieno e profondo.
Tutto questo per Dip era gastrosofia. Con buona pace dei piloro altrui.
Oggi in dispensa spaghetti non c’erano. Pertanto ho optato per ricetta con i paccheri.
E poi dopo aver preso un pacco come Zahir gli sembrava il taglio di pasta più confacente.
Andiamo alla preparazione
Soffriggere in olio bollente e rosmarino dei pezzi di lardo di colonnata e delle patate tagliate a rondelle precedentemente sbollentate.
Aggiungete calamari tagliati a listarelle e pomodorini secchi sott’olio.
Sfumare con vino bianco possibilmente zibibbo secco.
Ripassare il sugo precedentemente fatto in padella con i paccheri di gragnano cotti al dente.
Il pacco ci stava in fondo era come un accidente che ti capitava.
Certe donne sono come le calamità naturali, quando ne senti il rombo arrivare è già troppo tardi. Il fulmine è già caduto. Ovviamente questo lo dico dopo aver sopito lo stomaco con i paccheri. Perché Gionni, nella sua gastrosofia poi risolveva tutto nello stomaco. Ci annegava le delusioni delle sue vane ricerche.
Puoi avere solo un colpo di fortuna. Che il fulmine colpisca l’uomo alla tua destra. Benjamin Franklin.