Sud. Ma perché poi era andato così a Sud? Cosa lo portava là? Non era del tutto di quelle parti in fondo. Ma poi perché in tutto sto Sud proprio in Sicilia?
L’isola era grande, un continente praticamente. Narratori immensi ci si erano persi, Goethe, Maupassant, Bukowski.
No Bukowski no, peccato. Gli piaceva tanto Bukowski. Ci aveva riflettuto a posteriori sulla sua direzione di marcia. C’era un istinto quasi gastrico che lo guidava, una bussola interiore che lo portava in quel posto, la punta del sud. Capo Passero. A sud di Tripoli e di Bengasi, a sud di Algeri e di Tangeri. Sentiva che lì c’era qualcosa di ancestrale, di iniziatico. Forse perché il suo bisnonno, agli inizi del 900′, già andava da quelle parti, dove gestiva un fiorente commercio. Comprava sommacco, tannino, e porpora importata dall’Oriente. Il sommacco in particolare veniva usato per produrre un fissativo per la colorazione dei tessuti, veniva prima triturato nella fabbrica Terrasi di via dei Cantieri e poi imbarcato sui bastimenti dei Florio, direzione Inghilterra.
O forse perché gli piaceva tanto l’oro rosso. Il datterino di Pachino. Elemento essenziale dei suoi piatti.
O era altro? Era fuga dal nord e da quello che rappresentava. Da schemi che non voleva più seguire, da un ritmo che non voleva più ballare. Aveva fatto quasi di tutto nella vita, tanti luoghi, tanti mestieri. Aveva vissuto molto, aveva combattuto tante battaglie, ne aveva vinte diverse, ma alla fine la guerra, non sua, ma che si era scelto, l’aveva persa. Ed aveva deciso di non combatterne più. Almeno di quel tipo.
Ora voleva guardare il mondo da un altro angolo, più equilatero, meno acuto. Voleva che la sua vita, vissuta a 100 all’ora, adesso fosse assolutamente slow. E quel posto, i suoi ritmi, le sue temperature, i suoi tramonti lo erano. Aveva piantato la sua tenda, dopo un lento girovagare, a Marzamemi. Era una borgata marinara costruita intorno alla tonnara del Principe di Villadorata. Ed in un magazzino da pesca del Principe, affacciato sulla balata, aveva stabilito il suo rifugio. Il buen ritiro.
Aveva superato per ben due volte la linea d’ombra della vita. Quella descritta da Conrad. Sia quella che dalla giovinezza passa alla maturità, prendendosi sulle spalle il proprio destino e quello degli altri, sia quella che ti fa entrare nel cuore di tenebra. Dove trovi spettri interiori, fragilità e paure. Quando si passa questa linea sopraggiunge una certezza finalmente. Che il proprio Io te lo devi tenere, lo dovrai affrontare e sopportare quotidianamente, facendo i conti con i propri dubbi e le incertezze. Ci puoi solo convivere. Era arrivato forse alla terza linea, quella di “Suspence”, in cui il grande scrittore inglese di origine polacca si confronta con il mediterraneo, il mare nostrum. Oggi aveva bisogno di verità. E solo il mare te la può dare. Solo lì le cose hanno un senso. E le parole che lo descrivono hanno significati univoci. La scelta di un borgo marinaro, di pescatori e contrabbandieri era il terminale naturale.
Nella piazza di quel borgo Salvatores aveva ambientato Sud, il suo film più riuscito. Tra le dune di sabbia delle spiagge dei dintorni Antonioni aveva girato delle scene stupende. Era in un set naturale e Dip voleva girare un altro film. Voleva girare un nuovo ciak della sua esistenza. Voleva calmare l’inquietudine del vivere.
Dip era sveglio da ore. Aveva dormito poco, e poi era uscito per incontrare l’alba. Aveva chiare poche cose. Una di queste era che la sua vita era fatta di incontri, che ne permeavano il flusso, come maree, a volte la direzione di marcia, financo l’umore e la cucina. A volte si allontanava seguendo persone che lo incuriosivano o donne che lo attraevano. Poi però come seguendo una bussola piantata in quelle contorte, e quella mattina vacanti meningi, tornava a sud.
Era appena rientrato da uno dei suoi sconclusionati girovagare, appresso alla principale causa delle sue disavventure. Il suo amico Pippo ingegner Piccione. Erano andati a Siracusa perché Piccione aveva in serbo una sorpresa per lui.
Lei era la classica bellezza della Magna Grecia. Bruna, occhi scuri, pelle olivastra penserete voi. Nulla di tutto ciò. Era bionda e dall’occhio ceruleo e soprattutto bancaria. voi mi chiederete che c’entra bancaria? C’entra, c’entra. Parlatene con quel maitrè a pensier dello Stretto, atipico professionista della fuffa, il funambolico Piccione.
Questa era addirittura bancaria! Certo era una banchetta di provincia, ma non andiamo troppo per il sottile. Piccione era stato categorico!
Il suo amico di cazzeggio e spartito, l’indefinito ingegnere di incerte origini, una specie di dottor ” Stranamore” , decise di ribadire su cotanta saggezza.
Disse Piccione e Dip capitolò. Si fece dare il numero di telefono della bancaria calabra ed iniziò una di quelle sue dinamiche televirtuali di cui era un mestierante. Non dotato di un avvenente bellezza, il nostro sfigato rubacuori asfissiava in una spirale di messaggi pseudo intriganti e telefonate le sue incaute aspiranti. Era per necessità un professionista del corteggiamento telefonico, un novello Ciranò.
Organizzò un rendez vouz alle tragedie greche di Siracusa invitando al seguito un allegra brigata. La nostra Provvidenza, si chiamava così il biondo oggetto del desiderio, era in sollucchero. Finalmente lei, portandosi seco la sua fida amica Tanina, avrebbe incontrato l’affascinante, così l’aveva presentato quella truffa di Piccione, e misterioso Dip. Il primo incontro, il primo sguardo, fu timido ed imbarazzato. Si sedettero accanto, sulle pietre degli avi nel tramonto del teatro, coscia contro coscia, la prima intimità. Lei fremeva, lo guardava di sottecchi fugacemente, si sentiva accaldata e inumidita. “oddio che mi sta’ succedendo” pensò la nostra bellezza calabra. Dopo un lungo monologo del primattore delle Orestiadi, lei allungò le mani verso di lui, un contatto dopo tanti pensieri solitari. Si girò all’improvviso colpita da un rumore. Lui dormiva, che dico, russava proprio. Imbarazzata gli diede una gomitata tra le costole.
Lui si risvegliò annoiato sbadigliando. Dobbiamo rivelarvi che come sosteneva Piccione il nostro Dip era arrivato ad un’anoressia culturale disperante. Aveva letto e studiato assai, ed ora gli “abbuttava”. Gli dovevate dare per divertimento solo mezze bire e musica di dubbio gusto, meglio se dispensata da quell’africano DJ amico suo, tale Pippolis.
Lo spettacolo al fine terminò e l’improbabile brigata si spostò nei propri alloggiamenti di Marzamemi. Il gruppo messo insieme dal nostro Dip comprendeva il paraninfo Piccione, la leggiadra Provvidenza con la sua amica Tanina e due allegre comari catanesi, ribattezzate Cip e Ciop. Vi erano varie stanze nella casa di Dip, e gli ospiti cominciarono ad accomodarsi. La nostra calabresella, immaginando una notte di passione, pensò che gli venisse data una camera comoda all’uso. Invece quel minchia la fece accomodare in una stanza con i letti a castello! E per giunta sistemata con Piccione. Il nostro incomprensibile protagonista scelse invece di dormire nell’ampio soggiorno cucina, con la scusa che, professandosi monsù, si sarebbe dovuto alzare presto per preparare la colazione. Lei non ci poteva credere.
Non parliamo poi di come la prese per il culo la sua amica Tanina.
Come si può immaginare Tanina aveva dei costumi più facili della virtuosa Provvidenza. A tarda notte la nostra coppia sconclusionata si diede un casto saluto, con un bacio sfiorato ed incerto. Lei la bionda Calabria non riuscì ad addormentarsi, si rigirava nel suo lettino senza pace. “Non può finir così” pensò. “questo stronzo si sta’ ribordando”.
Decise di prendere l’iniziativa e intabarrata, a causa dell’umidità, in un virgineo pigiama antistupro scivolò di soppiatto nel soggiorno dove dovevasi trovare il nostro decantato sciupafemmine. Non lo trovò, anzi cominciò a sentire dalla camera di Cip e Ciop, le minute etnee, risa e Sollazzi. Vuoi vedere!!!
Così era! il losco figuro dopo un po’, con aria scanzonata uscì da quella stanza. lei avvolta in una sciarpa ed ormai congelata lo aspettava su un divano di legno e corda che sembrava il letto di un fachiro. lo guardò e nonostante le moine ed i tentativi di rabbonirla decise. “Non gliela darò mai! Né la virtù nè la mastercard!”
Dip la prese bene tutto sommato. Non era la prima volta che gli finiva in bianco. Sbagliava sempre per troppe aspettative, per film mentali, per incapacità di leggere tra le parole che le donne ti dicono. Era il perfetto soggetto che rappresentava l’incomunicabilità tra i sessi. Le ascoltava, mischino, ma non capiva.
Mentre quel paramecio di Piccione ancora dormiva lui si mise al lavoro erano già le sei.
Cominciò a pelare l’aglio per la pasta con i tenerumi. Almeno quella la sapeva fare.
Ed i tenerumi erano il giusto palliativo per un uomo in cerca di tenerezza.
Questa minestra è uno dei simboli di un’isola contraddittoria, una minestra estiva, un ossimoro in partenza, se non fosse che va mangiata “riposata”. Questa cosa della riposata è di una bellezza tutta nostra. Esprime un calore che si lascia andare come l’oblio dopo il sesso. Qualunque cosa, per essere buona, deve avere un tempo di rilascio, dalla cottura al palato, che va dall’immediato del panino con le pianelle alle almeno 6 ore della pasta con i tenerumi. Già il nome ha un che di morbido e sensuale, di tenerezze avite, delle coccole di nonne e zie per chi ha avuto parentele siciliane.
È un piatto tipicamente palermitano, i tenerumi li trovate solo dai fruttivendoli del capoluogo, è molto raro trovarli in altri posti.
Il mio massimo è mangiarla di frigo il giorno dopo, praticamente un gazpacho, con una spruzzata di caciocavallo grattugiato sopra. I puristi ci mettono la ricotta salata ma io ci preferisco il caciocavallo stagionato, meglio se ragusano.
Procediamo nel mondare, direbbe l’Artusi, le foglie più tenere dei mazzi di tenerumi che sono le figlie delle zucchine lunghe, quelle che chiamiamo fresche e “longhe”, pulite le foglie e lasciando qualche gambo tenero, da fare a pezzi per dare un po’ di consistenza.
Nel frattempo preparate un “picchi pacchi” con aglio tritato. Si può mettere intero per poi toglierlo, ma è per quei palati “finuliddi”. L’aglio si deve sentire, se no andate a mangiare dal mio amico chef Filippo La Mantia che lo aborre. Imbiondito l’aglio aggiungete i pomodori pelati, meglio siccagni.
Mettete a bollire per dieci minuti i tenerumi. Io ci metto una patata per aumentare la collosità e l’amido.
Aggiungere alla pentola gli spaghetti spezzati. Non mettete altra pasta corta se no commettete sacrilegio.
Spegnete dopo pochi minuti la pasta, deve essere più che al dente, continuerà a cuocere lentamente anche dopo spenta la pentola.
A questo punto aggiungete il “picchi pacchi” e lasciate “riposare” per qualche ora. Più riposa più la minestra vi rinfrescherà.
A domenica prossima per il terzo capitolo….
Giovanni Pizzo