L’Italia ha 5,6 milioni di persone che vivono sotto il livello dì povertà: una ogni 12. Sono un milione in più rispetto allo scorso anno. Eppure, poco tempo addietro, qualcuno, affacciandosi dal balcone di Palazzo Chigi, aveva annunciato che la povertà era stata sconfitta, in realtà in quella circostanza fu detto che era stata abolita: magari fosse stata sufficiente una legge!
Evidentemente si trattava di un annuncio avventato, come tanti altri provenienti dalla medesima parte politica, perché la povertà non si supera con le elemosine, di stato o private, ma con il lavoro, lo studio e gli investimenti, che si costruiscono e si realizzano attrezzando il Paese con infrastrutture moderne, reti, strade, ponti, porti, ferrovie, fonti energetiche, ecc.
La povertà, soprattutto quella intellettuale, si combatte costruendo scuole e facendole funzionare bene, non certo con i costosissimi banchi a rotelle, ma con insegnanti che siano al passo coi tempi, che vengano costantemente aggiornati e con riforme che sblocchino i settori cardine dello stato: giustizia, burocrazia, appalti, sanità.
Secondo l’Istat, nel 2020, le famiglie italiane interessate al fenomeno dell’impoverimento erano circa due milioni, vale a dire il 7,7%, contro il 6,4 dell’anno precedente, che era già una cifra piuttosto consistente.
Si tratta di un incremento assai notevole che impone un netto cambio di marcia, anche alla luce della scompensata ripartizione tra le diverse parti d’Italia delle risorse disponibili.
Al Nord il dato passa dal 5,8 al 7,6%, al Centro dal 4,5% al 5,5%, mentre al Sud si va dall’8,6% al 9,3%, una cifra che manifesta in maniera palese la netta differenza esistente tra le diverse parti del Paese ed il differente modo con il quale si interviene, non certo utilizzando forme perequative.
I dati diventano davvero preoccupanti se si prendono in considerazione quelli relativi ai minori in povertà, che nel 2020 sono stati 1,137 milioni, con un incremento di due punti percentuali rispetto all’anno precedente.
Di fronte a queste cifre, appare di tutta evidenza come le misure di contrasto alla povertà non possano affatto limitarsi al pericolosissimo reddito di cittadinanza, soprattutto nella formulazione generica che conosciamo e che ha manifestato numerosi elementi di debolezza, ci vuole altro ed il Governo ci sta pensando.
In ogni caso è il sistema del welfare che bisogna interamente ripensare, mettendo al centro non i sussidi ma le prestazioni lavorative, rivolte ad ambiti che necessitano di particolari attenzioni.
Il reddito di cittadinanza ha rappresentato un fallimento non solo perché non ha permesso l’avviamento al lavoro di chi ne aveva diritto, ma soprattutto perché ha innescato una serie di elementi distorcenti che hanno provocato un incremento del lavoro nero, da una parte, e il rifiuto della ricerca di un’attività lavorativa, dall’altra.
Intervenire a sostegno di chi è fuori dal mondo della produzione è cosa buona e giusta ma, per riuscire nell’obiettivo, è necessario agire sul fronte delle imprese, sul fronte dei servizi della Pubblica Amministrazione, sul fronte dei servizi alle persone, insomma sul fronte del reddito guadagnato, non concesso in forma di elemosina. Salvo che un lavoro non lo si possa svolgere, a causa di motivazioni oggettive, a cominciare da quelle fisiche, non certo perché si preferisce il divano o perché ci si dedica ad attività criminali, bisogna evitare l’erogazione di salari che non corrispondano a prestazioni, gli effetti li si sono visti.
Insomma, il percorso è ancora lungo, ma la prima mossa non può che essere quella che livella le condizioni del Paese, attraverso una vasta opera riformatrice e di profonda infrastrutturazione.
La riforma avviata dal Governo sembra che voglia andare in questa direzione, ma prima di esprimere giudizi definitivi è bene che si abbia per le mani il testo definitivo della proposta, che al momento appare ancora incompleto, dunque suscettibile di ulteriori ed auspicabili elementi migliorativi. Attendiamo con ansia!