Sfruttamento, caporalato, zero diritti e paghe da fame per un lavoro che resta ancora oggi tra i più faticosi e usuranti. In una sola parola: schiavitù. Una condizione comune a molti lavoratori nei campi siciliani e su cui si regge parte della nostra agricoltura, un settore che secondo gli ultimi dati di Bankitalia rappresenta oltre il 4% del Pil regionale (più di tre miliardi di euro), ma che è difficile “fotografare” con precisione, tra sommerso e dati discordanti.
In base a una stima della Cgil, ci sono più di 140 mila lavoratori in 26 mila imprese realmente attive (senza considerare, per esempio, i singoli agricoltori “fai da te”). Secondo Palazzo Koch, considerando l’intero universo che comprende anche pesca e selvicoltura, si arriva a 79.810 aziende mentre l’ultimo censimento dell’Istat, risalente al 2011 (quest’anno è in corso il 7° censimento), ne conta addirittura 220 mila, ponendo l’Isola al secondo posto in Italia dopo la Puglia.
In ogni caso, stiamo parlando di migliaia di aziende che a causa dell’esiguità dei controlli degli enti preposti, per via di organici “ridicoli” rispetto all’entità del fenomeno, in molti casi si servono di inquantificabili eserciti di questi nuovi schiavi per portare sugli scaffali dei supermercati, a prezzi stracciati, i prodotti preferiti dai consumatori.
Secondo l’ultimo rapporto “Agromafie e caporalato” della Flai-Cgil, in Sicilia, circa il 40% dei braccianti è assoggettabile a forme occupazionali basate sullo sfruttamento e pertanto plausibilmente movimentato da caporali. Si parla di una forza lavoro formata da oltre 28 mila persone schiavizzata da imprenditori e caporali. A confermare la vastità di questo fenomeno, ci sono anche i risultati dei controlli effettuati dagli ispettori del lavoro dell’Inps da inizio anno fino ad oggi. Su 68 imprese controllate, 60 sono state trovate irregolari, quindi oltre l’88%, e 1.550 braccianti sono risultati irregolari.
Praticamente, in media, sono stati trovati dieci impiegati irregolari al giorno nonostante le visite siano state effettuate solo in 13 aziende al mese. Una tendenza che rapportata all’intero settore potrebbe “nascondere” numeri spaventosi. “La regolarizzazione che è stata fatta con il decreto Rilancio – dichiara al QdS Tonino Russo, segretario regionale della Flai-Cgil – non ha avuto l’effetto che tutti ci auspicavamo, cioè quello di fare venire fuori tutto un mondo di lavoratori che sono irregolari. Purtroppo, questi lavoratori sono rimasti tali”.
Secondo il segretario regionale del sindacato il fenomeno più diffuso in Sicliia non è il caporalato, bensì lo sfruttamento. Nello specifico, è “il sotto salario ad investire tutti i lavoratori, non solo quelli stranieri ma anche quelli italiani”. Questo tipo di sfruttamento, ovviamente, è anche la causa di molti problemi sociali, come quello degli “insediamenti informali”. Baraccopoli d’emergenza costruite dai lavoratori stessi per riposarsi tra un turno di raccolta ed un altro, come quelle di Castelvetrano o Campobello di Mazzara.
“Qui – spiega Russo – le norme sulla sicurezza non ci sono e con il Covid la situazione è peggiorata. C’è stato anche un momento in cui le associazioni dei coltivatori lamentavano la mancanza di manodopera perché molti lavoratori irregolari erano tornati nei propri paesi. Ma noi abbiamo sempre detto che non c’è un vero problema di manodopera, c’è un problema di manodopera che non è retribuita bene. In campagna ci si spacca la schiena e il lavoro va retribuito in maniera adeguata e corretta”.
Lo strumento ordinario che lo Stato ha a disposizione per contrastare questo fenomeno è quello delle ispezioni nei campi agricoli. Purtroppo, in Sicilia i controlli nelle aziende non sono adeguati alla vastità dello sfruttamento perpetrato ai danni dei braccianti. È stata la stessa direttrice regionale dell’Inps, Maria Sandra Petrotta, ad affermare che “il rischio concreto che le aziende possano essere ispezionate è talmente contenuto che le stesse aziende agricole trovano conveniente il sistema del caporalato”. Il numero così esiguo di controlli è dovuto principalmente alla carenza di organico non solo dell’Inps, ma anche dell’ispettorato del lavoro regionale.
“Per garantire l’effettività dei controlli – spiega Petrotta al Qds – e un’efficace azione di deterrenza servirebbe un numero di ispettori decisamente superiore”. L’Inps dispone attualmente di 91 ispettori in tutta la Sicilia ai quali è affidata la vigilanza su tutti i settori. Sommati agli ispettori che dipendono dall’assessorato regionale al Lavoro (94), in totale ci sarebbero 185 persone addette ai controlli nei luoghi di lavoro siciliani.
“In questo momento – afferma Petrotta – almeno la metà dei nostri ispettori si trova impegnata sul versante agricolo”. In pratica, circa 45 ispettori che dovrebbero controllare le decine di migliaia di aziende siciliane per contrastare uno sfruttamento che viene definito dalla stessa dirigente regionale “talmente radicato da potersi considerare endemico”.
Per quanto riguarda il caporalato vero e proprio, “per le sue modalità concrete di realizzazione – dichiara Petrotta – è il più difficile da intercettare: i migliori risultati li otteniamo quando operiamo in modo congiunto con le forze dell’ordine”. Collaborazione che secondo la Flai-Cgil Sicilia non esiste. “Bisogna fare rete tra Inps, ispettorato del lavoro, carabinieri del lavoro e Agea – dichiara Tonino Russo -. È possibile fare controlli incrociati anche attraverso i dati che sono in possesso dell’Inps e dell’assessorato del Lavoro. Purtroppo, in Italia ancora non si fa rete tra gli enti preposti”.
In realtà, stando alle parole della direttrice regionale dell’Inps, la collaborazione con gli altri enti è totale. “A monte dell’accesso in azienda – spiega – c’è un’attività preliminare per l’individuazione di indicatori sospetti (l’aumento improvviso dei lavoratori in forza o la sproporzione della manodopera rispetto ai terreni coltivati) e per l’incrocio delle informazioni attinte dalle banche dati dell’Inps e di altre amministrazioni. C’è anche un interscambio costante di notizie e segnalazioni con Ispettorati regionali del lavoro, Nuclei ispettivi dei Carabinieri e Inail. Di recente abbiamo sottoscritto anche un protocollo d’intesa regionale con la Guardia di Finanza”.
Come avviene per ogni fenomeno criminale, la repressione non può essere l’unica arma a disposizione dello Stato, il quale dovrebbe agire anche attraverso una prevenzione del fenomeno stesso. Nel caso specifico del caporalato e dello sfruttamento in agricoltura, attraverso politiche attive del lavoro serie ed efficaci. Ed è proprio in questo senso che agisce la legge 199 del 2016, anche se ancora in Sicilia non ha sortito i suoi effetti.
“In Italia abbiamo la 199 che è la legge contro lo sfruttamento e il caporalato – spiega Russo – che ha istituito le reti del lavoro agricolo di qualità. Noi stiamo chiedendo che in tutte le province si costituiscano queste reti in modo tale che si dia un valore in più alle aziende che si iscrivono e che quindi dichiarano di rispettare le norme sulla sicurezza e sul lavoro”.
Inoltre, c’è un’altra strada per il contrasto al caporalato che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno si impegna a prendere: la ricostituzione dei collocamenti pubblici. “Il caporalato – continua Russo – non è altro che l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Quindi è necessario ricreare luoghi pubblici dove le aziende possano richiedere e trovare la manodopera e dove i lavoratori possano iscriversi in liste pubbliche di collocamento. Il caporale, di fatto, si sostituisce allo Stato creando un servizio che effettivamente è mancante”.
Un aiuto importante per il contrasto allo sfruttamento dei braccianti viene dal fondo Fami, attraverso il quale il ministero dell’Interno ha finanziato ben 15 progetti di integrazione dei migranti con circa 28,9 milioni di euro. “Ci sono molti progetti in campo e aiutano moltissimo – spiega Tonino Russo – Ne partirà uno nei prossimi mesi che si chiama ‘Diagrammi’, dove partecipiamo come Flai, che deve proprio monitorare la situazione e accompagnare i lavoratori che sono regolari in un percorso di inserimento lavorativo”.
A livello regionale, invece, le iniziative messe in campo da Musumeci sono essenzialmente due: l’istituzione di centri polifunzionali, per i quali sono stati stanziati 1,4 milioni, e la creazione di un villaggio per gli stagionali a Cassibile, dove prima sorgeva una baraccopoli.
“Il progetto dei centri polifunzionali – dichiara l’assessore regionale al Lavoro, Antonio Scavone – serve anche per assicurare ai circa 190mila migranti regolari dell’Isola adeguate misure di prevenzione e tutela della salute sui luoghi di vita e di lavoro”. Inoltre, nelle intenzioni dell’assessorato regionale al Lavoro c’è anche la costituzione di un tavolo, di concerto con l’assessorato all’agricoltura, che metta insieme tutte le parti sociali per elaborare una misura volta al contenimento dello sfruttamento bracciantile siciliano. “L’assessorato – conclude speranzoso Russo – ci ha annunciato che ci convocherà, noi aspettiamo”.
PALERMO – Per comprendere meglio il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento bracciantile in Sicilia, ci siamo rivolti a Maurizio Avola, docente associato di sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Catania, che per anni ha svolto ricerche nelle campagne siciliane per individuare sfruttati e sfruttatori.
Professore Avola, in che forme si identifica lo sfruttamento bracciantile in Sicilia?
“Spesso generalizziamo il concetto di caporalato e lo applichiamo a tutte le possibili situazioni di irregolarità diffuse nel mondo del bracciantato agricolo. Il caporalato tradizionale ha a che fare con una pratica illecita di mediazione: i caporali portano operai giornalieri o settimanali nei campi per le raccolte e trattengono una parte del compenso. Questo è un fenomeno di irregolarità che riguarda le attività di raccolta che si concentrano in particolari periodi dell’anno. Ad esempio, la raccolta del pomodoro, soprattutto quello da trasformazione industriale. Tuttavia, il caporalato è un’attività che riguarda meno le forme di gestione di produzione agricola tipica della Sicilia. Con un gruppo con cui lavoro, abbiamo condotto una ricerca, che è durata diversi anni, nelle serre ragusane, in particolare nelle zone di Vittoria, Acate e Santa Croce Camerina. Qui c’è un lavoro che richiede un impiego di manodopera per un periodo continuativo di dieci mesi l’anno. Quindi, per il datore di lavoro, una manodopera che cambia ogni 15 giorni sarebbe disfunzionale. In questa ricerca, infatti, non abbiamo trovato il caporalato tradizionale, abbiamo trovato altre forme di sfruttamento dell’attività lavorativa. Una prassi molto diffusa è quella della sotto dichiarazione delle giornate lavorative. Un’altra forma di sfruttamento è il pagamento di salari al di sotto di quelli sindacali con paghe di 25 o 30 euro al giorno. Grazie alle mie ricerche, posso sottolineare che il binomio agricoltura-immigrazione è un binomio che si regge moltissimo sullo sfruttamento”.
C’è una stima di quante persone vengono coinvolte da queste forme di sfruttamento?
“Se intendiamo quante sono le persone realmente irregolari è un dato impossibile da stimare. Se intendiamo la diffusione di pratiche di irregolarità parziale, anche questo è veramente molto complicato da stimare. Quello che abbiamo individuato è che l’irregolarità è molto diffusa nelle sue forme parziali. E soprattutto è molto più diffusa tra gli immigrati che tra i nativi, anche se questi ultimi rappresentano la maggior parte dei braccianti agricoli. Solo in alcune aree, come quella del ragusano o del vittoriese, gli immigrati rappresentano oltre la metà dei braccianti regolarmente dichiarati. La quasi totalità degli stranieri, in agricoltura, svolge lavori umili, in condizioni di irregolarità, in condizioni salariali e di numero di giornate lavorative peggiori dei nativi”.
Secondo lei, i controlli ad opera degli ispettori dell’Inps o della Regione sono adeguati?
“Il sistema dei controlli è molto debole nel nostro Paese. Il ruolo dell’ispettorato è marginale rispetto alle dimensioni che assume il fenomeno. È anche molto complicato fare i controlli perché in alcuni casi ci sono intersezioni tra attività economiche irregolari e attività illecite in senso ampio, nei confronti delle quali il ruolo dell’ispettorato sicuramente non può essere quello che dovrebbe. Pensiamo anche alle commistioni che ci sono tra attività economiche irregolari e agromafie, anche se non lo ritengo un fenomeno pervasivo in quanto la stragrande maggioranza dei piccoli produttori agricoli viene schiacciata dalle grandi centrali di acquisto. I grandi supermercati che impongono il prezzo, fanno si che i piccoli produttori abbiano dei margini di profitto così bassi che non possono che scaricare sull’anello più debole queste imposizioni. Quindi imporre condizioni di lavoro più onerose di quelle normali e salari più bassi di quelli normali. Da questo punto di vista non me la sentirei di fare una condanna piena del mondo dei produttori agricoli che spesso sono vittime di un sistema di filiera agroalimentare che trova nelle grandi centrali di acquisto i soggetti che iniziano questo processo di costo al ribasso”.
Per sovvertire questo sistema di sfruttamento che viene perpetrato ai danni dei più deboli cosa si può fare? Serve più impegno rispetto a quello attuale?
“I progetti che si svolgono grazie al fondo Fami del ministero sono molto utili, perché hanno come obiettivo quello di promuovere percorsi di uscita dall’irregolarità, percorsi di sensibilizzazione che guardano tanto alle vittime ultime ma anche ad altri attori importanti come gli imprenditori e il terzo settore. La sensibilizzazione su questo tema ha una grandissima rilevanza. Per quelle che sono le mie esperienze di ricerca, questi soggetti sono attori chiave per garantire ascolto e servizi. Il mondo del terzo settore e i Comuni rappresentano dei presidi importanti di legalità, dei presidi importanti sul piano dei servizi offerti. Per cui li ritengo indispensabili. Dall’altro lato è indubbio che sarebbe necessaria un’organizzazione dell’attività di controllo e repressione più articolata, più rigida e con una dotazione organica che in questo momento non c’è. Sicuramente servirebbe qualcosa di più rispetto a quello che è attualmente messo in campo contro il fenomeno. Servirebbe soprattutto un forte coordinamento tra l’attività svolta dagli ispettorati e quella svolta dalle forze dell’ordine. Coordinamento che attualmente è carente”.
Lei, insieme ad Unict, sta partecipando ad uno dei progetti finanziati dal fondo Fami. Di cosa si tratta?
“Si tratta del progetto Forma che è in corso di realizzazione e che, purtroppo, riguarda cinque regioni del Nord. Abbiamo partecipato come Unict a più bandi con altri attori che si occupano del tema. Il bando che riguardava queste regioni del Nord ha visto il nostro partenariato vittorioso, mentre quello che si concentrava sulle regioni del Sud non lo abbiamo vinto noi. Ci sono altri attori istituzionali che hanno vinto questo bando. Purtroppo, per i progetti di contrasto al fenomeno previsti dal fondo Fami ci sono più soldi per il Nord che per il Centro-Sud. Questa è una cosa sui generis, perché il fenomeno è più diffuso al Sud di quanto non lo sia al Nord”.