PALERMO – Nel 2018 la Sicilia ha speso 2,8 miliardi di euro per il personale del sistema sanitario, corrispondenti all’8% dei 34,8 miliardi di euro spesi complessivamente a livello nazionale. Secondo i dati contenuti all’interno del “Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica” della Corte dei Conti, questa spesa risulta in costante crescita dal 2016.
Infatti, rispetto all’anno precedente, nel 2018 si è speso lo 0,84% in più. Mentre si parla dell’1,10% in più rispetto al 2016. Un incremento nettamente più consistente è riscontrabile quando si fa il confronto con il 2004: infatti, in questo caso la crescita raggiunge quota +18,91%, con 2,3 miliardi di euro spesi.
Piemonte (2,8 miliardi di euro), Emilia Romagna (3 miliardi di euro) e Lombardia (5 miliardi di euro) sono le uniche tre regioni in Italia ad aver speso più della Sicilia per il personale sanitario nel corso del 2018. Ma se in queste regioni si spende di più in termini assoluti, la situazione si ribalta quando si calcola la spesa per il personale procapite, ovvero la spesa media per abitante.
Infatti, in questo caso, in Sicilia la spesa procapite è pari a 554 euro, oltre 50 euro in più rispetto ai 497 euro per abitante della Lombardia. Anche in una regione in piano di rientro come la Sicilia si spende meno in termini procapite: infatti, nel Lazio la spesa media ad abitante ammonta a 447 euro. Se in Sicilia si spendesse la stessa quota procapite dispensata in Lombardia, si genererebbe un risparmio pari a 285,1 milioni di euro: infatti, in questo modo, la spesa sfiorerebbe i 2,5 miliardi di euro.
Come specifica la relazione della Corte dei Conti, sebbene in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto i livelli di spesa sono stati superiori rispetto ai limiti, “queste regioni hanno coperto il differenziale con risorse proprie, garantendo l’equilibrio dei conti”.
Inoltre, la Corte dei Conti mette in evidenza la maggiore difficoltà per Sicilia, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Calabria, tutte regioni in piano di rientro, di programmare i fabbisogni e sopperire alle carenze di personale sanitario. Infatti, i vincoli finanziari hanno notevolmente inciso su questi aspetti.
Si registrano carenze in alcune discipline, nonchè per i medici di medicina generale. Il che comporta un aggravio di lavoro per gli organici in forza nelle strutture (si pensi all’area dell’emergenza, dove comunque occorre garantire la presenza medica) o un allungamento delle liste di attesa (oltre che nella specialistica anche nella chirurgia, dove mancano gli anestesisti, necessari a garantire l’apertura delle sale operatorie).
“A rendere più difficile rispondere alle carenze – si legge all’interno della relazione – contribuiscono più fattori: i diversi regimi esistenti tra strutture private e pubbliche nella possibilità di svolgere lavoro in regime libero professionale e l’innalzamento delle soglie minime del regime forfettario a 65.000 euro con aliquota piatta al 15%, che riduce per un medico con rapporto libero professionale le imposte di quasi due terzi rispetto ad un medico dipendente, orientando l’offerta di lavoro a tutto discapito del lavoro pubblico”.