La strada per il reale riconoscimento della professione sessuale è più che mai in salita. Al limite tra lecito e illegale, ogni attività che preveda lo scambio di denaro o di beni in cambio di servizi e/o performance sessuali è ancora un tabù per Stato e società.
Ne abbiamo discusso con Pia Covre, storica attivista e presidente del Comitato per i diritti civili delle prostitute (Cdcp), un’associazione no profit fondata da prostitute e non nel 1982, che nel 2004 ha ottenuto l’iscrizione nell’anagrafe regionale delle Onlus e si propone di fornire supporto alle persone che svolgono questa professione tramite attività culturali e azioni di sensibilizzazione politica e culturale sul tema.
Dottoressa Covre, come siamo messi in Italia in tema di sex work?
“Noi ci definiamo come sex worker perché ci sentiamo a tutti gli effetti delle lavoratrici sebbene l’attuale legislazione italiana non lo riconosca come tale. Se, infatti, lo Stato ci richiede di pagare le tasse e ci permette di aprire una partita Iva, questo è possibile solo nella dimensione di attività e servizi alla persona o massaggiatrice poiché non esiste una categoria professionale legata al sesso in cambio di denaro”.
“Anche senza partita Iva si possono pagare le tasse e possono essere attivati tutti i controlli del caso ma vengono meno tutti i diritti connessi, come per qualsiasi altro lavoro regolare. Non è di fatto possibile organizzare il proprio lavoro in autonomia, assumere una domestica o collaboratrice che possa coadiuvare lo svolgimento delle proprie attività e, inoltre, chi affitta una casa a una professionista del sesso rischia di essere perseguito legalmente per favoreggiamento. In buona sostanza è come se questo tipo di attività continuasse ad essere perseguitata e, di conseguenza, viene meno l’interesse a svelarsi”.
E per quanto riguarda le tutele legali, lavorative e sanitarie?
“È vero che pagando le tasse è possibile accedere a tutte le tutele sanitarie del caso e godere dell’assistenza sanitaria come tutti gli altri cittadini. I riconoscimenti di lavoro usurante, infortuni, ecc., invece, non sono comunque riconosciuti o opportunamente commisurati a quanto guadagnato. Lo stesso dicasi per il trattamento previdenziale”.
“Anche provvedendo tramite assicurazioni private, così come ho fatto io in passato mentre esercitavo la professione, viene riconosciuto un compenso per infortunio pari a quello di una casalinga. Lo stesso vale nel caso di furto, che richiede di denunciare l’accaduto alle autorità competenti, dovendo fornire tutte le spiegazioni di quanto si stava facendo al momento del reato”.
“Da non dimenticare che oggi le persone che lavorano in questo settore sono per la maggior parte straniere e poter ottenere il pieno riconoscimento della propria attività lavorativa garantirebbe anche la possibilità di legalizzare la propria posizione nel paese, richiedendo regolare permesso di soggiorno. Questo potrebbe evitare che molte donne finiscano vittime di giri di racket o sfruttamento. In Italia è come se spesso si volessero chiudere gli occhi di fronte a problemi visibili a tutti, basti pensare alla questione cannabis”.
Qual è la vostra posizione sulla legge Merlin?
“Il nostro punto di vista sulla questione non riguarda la riapertura di case chiuse bensì la possibilità di organizzare in autonomia il proprio lavoro, in collaborazione con altre colleghe e in strutture private come, ad esempio, gli alberghi”.
“Questo non è attualmente possibile, in quanto anche se due professioniste decidono di collaborare nella stessa casa per aiutarsi nella suddivisione delle spese o per ‘guardarsi le spalle a vicenda’ rischiano di incorrere in sanzioni o di essere denunciate per favoreggiamento, il che rende piuttosto complicato autodeterminare il nostro lavoro”.
“Senza parlare delle difficoltà nel trovare una casa in affitto o prendere una camera in albergo per svolgere il proprio lavoro. Ogni sex worker deve avere la possibilità di essere imprenditore di se stesso e di decidere dove lavorare, con tutte le tutele lavorative che ne conseguono. Per fare questo è innanzitutto necessario partire dall’assunto che il lavoro sessuale è lavoro, al pari di tutti gli altri mestieri”.