Quando, periodicamente, si torna a parlare del Ponte sullo Stretto, la prima obiezione, anche da parte di chi non gli sia ideologicamente contrario, è: “Sì, però prima servono le ferrovie e le strade”. Non si va oltre: ma chi dovrebbe provvedere? Dove? Quando?
In realtà i soggetti sono ben noti, ma proprio questi eludono sostanzialmente di coinvolgersi: lo Stato, per ciò che ne resta nelle FS e nell’Anas, la Regione, le Città metropolitane. “Ma come? Si dirà. E i lavori in corso? Quelli sulla linea Pa-Ct? E gli altri sulla A19?” Appunto. Di questo si tratta: di meno del “minimo sindacale”.
Passano gli anni, ma le “priorità” non si traducono mai, non dico già in opere, ma almeno in un vero piano dei trasporti, che sapesse vedere la Sicilia in un’ottica grandangolare, non al microscopio di esigenze lenticolari. Quali, dunque, le vere priorità? Quelle ascrivibili a un’ottica strategica, in un quadro in cui la Sicilia stesse, come sta, al centro del Mediterraneo, dei suoi traffici, delle sue opportunità. Anche dei suoi rischi. E invece, semplicemente si esclama: “Prima le strade!”
Bene. È ormai chiaro che senza il Ponte – cioè senza una strategia che lo contempli come ingranaggio principe di un sistema – quelle “priorità” resteranno ciò che finora sono state: aspirazioni generiche, pie illusioni. Dal 1950 a oggi le Ferrovie hanno dismesso in Sicilia ben 700 km di linea, senza inaugurare nessuna nuova tratta, se non qualche raccordo a ridosso delle città maggiori. Il circuito ferroviario dell’Isola è ancora nella mente di Dio, o chiuso in qualche cassetto. Lo stesso per una linea tra l’Ovest e l’Est dell’Isola. Linee utili, se si guardasse a esse col grandangolo dell’economia, della geopolitica, dei commerci mediterranei, e delle infrastrutture portuali.
In mancanza di una strategia nazionale di sistema, le Ferrovie non ne hanno però cogenza, tanto nei confronti dei cittadini, quanto nei confronti di una prospettiva industriale e commerciale. Prevale la danza del cane, che si morde la coda: debolezza dell’economia, penuria di traffico, scarsità di passeggeri e merci, e zero virgola investimenti infrastrutturali.
Perché un’economia tanto asfittica? Anche (non solo) per dette carenze infrastrutturali. L’Italia, pare, non sa che farsene della Sicilia. E invece dovrebbe saperlo e volerlo, per le ragioni che Lucio Caracciolo ha lucidamente esposto nel suo articolo su “La Stampa” del 7 dicembre scorso, dove conclude che la priorità è giusto il Ponte, perché solo questo può costringere a non procrastinare indefinitamente l’infrastrutturazione, non solo quella siciliana, che da sempre s’invoca come priorità.
Aggiungo: non si vede perché l’una cosa dovrebbe precedere l’altra. A meno che non si pensi che tanti soldi dati alla Sicilia strozzino gli investimenti nel resto del Paese. La Bundesrepublik, fortunatamente per la Germania, ha sconfitto quest’ottica da bottegai, e ha investito massicciamente nel recupero della ex-DDR. Tagliando altresì burocrazie, rendite di posizione, politicanza.
Marcello Panzarella
Professore ordinario presso il Dipartimento di Architettura UniPa