“Signore e signori” è un film di Pietro Germi del 1966, uno dei suoi più fortunati. Era ambientato in una città provinciale e raccontava vizi privati e pubbliche virtù. Sembra il quadro di Palermo oggi dopo “soli” sessant’anni da quello spaccato di provincia di Germi.
Palermo è una città che al grande regista di “Sedotta e abbandonata” sarebbe piaciuta da morire. Una città che si divide da giorni, nei bar e nelle caffetterie, nei commenti di una nota vicenda agli onori, o disonori, delle cronache locali. Tutto ruota intorno a un ristorante giardino, nella più elegante via cittadina, via Libertà. Un ristorante di proprietà della Fondazione dell’ex glorioso Banco di Sicilia, una banca dissolta come la morale di questa città. Perché oggi Palermo non ha una morale; nessuno, nessuna categoria, può scagliare pietre. La città ex felicissima, poi saccheggiata, sparsa di sangue mafioso, illusoriamente primaverile, oggi non ha una visione dei propri costumi, i famosi o tempora o mores, che non erano frutti di bosco.
In questo ritrovo cittadino, su marciapiedi diruti e decadenti, oggi dipinto come luogo di spaccio, o di approvvigionamento forse, di una certa parte della città, ci andavano tutti. Amici e avversari, politici di opposte fazioni, magistrati, poliziotti e delinquenti, professionisti e nullatenenti, colti e ignoranti. Tutti ci andavano a farsi gli aperitivi, attratti dal giardino riservato, ma in mezzo alla strada, come piace tanto ai palermitani, appartarsi ma farsi vedere. Ci festeggiavano ricorrenze religiose e laici compleanni, senza un distinguo, un confine, una linea di demarcazione. Eppure, oggi, solo oggi, si mormorava che tutti sapessero, ma nessuno parlasse o riprovasse. Oggi quella parte di città è divisa, spaccata, tra i distinguo, tra chi giura che c’è stato rare volte, ma solo perché invitato per un genetliaco, chi “ci andavo spesso ma mai avrei sospettato”, chi “io non ci sono mai andato”, e spesso mente sapendo di mentire. Perché Palermo è così. Non immorale, che sarebbe già una scelta di campo più onorevole, una Gomorra. Ma ‘amorale‘, una palude, senza una definita coscienza di sé, senza una linea di confine tra il bene e il male, vocata solo alla convenienza momentanea, all’accordo confacente, all’accomodamento da “pasta con le sarde”, che il gestore del ristorante faceva particolarmente bene, per averla provata.
Sì, perché io ci sono stato da Bar, poi magari penso, presuntuosamente, pure di saper cucinare meglio di Mario, e magari preferivo andare a mangiare e bere in altri posti, ma io non faccio testo. Ho le mie fissazioni in fatto di padelle e barman. Io non rinnego come Pietro prima che il gallo canti tre volte, solo che c’erano cose in quel posto che mi davano fastidio. Ipocrisie innanzi tutto, atteggiamenti da “non sai chi sono io”. Ma poi troppo scrocco, il tipico comportamento del parvenu palermitano, a cui poi Mario era costretto ad offrire, visto che il professionista decaduto non aveva una lira. “Tinni puoi ire”, gli ho sentito dire tante volte, una specie di profano ite missa est.
Tutti ci andavano ma nessuno vedeva, sapeva, intuiva. Perché il primo comandamento del palermitano è farsi i cazzi propri. Anche quando, perché sei un magistrato o un poliziotto, ne ho visti tanti, non te li devi fare. Poi il vaso di Pandora viene scoperchiato. Come mai? Cui Prodest? Perché ora? Ora è il tempo della gogna, della vergogna, della fogna. Oggi i “si sapeva” si sprecano più delle sante comunioni, in questa città amorale. O forse solo umorale, la morale è cosa seria, per filosofi di secoli più pensanti.
Così è se vi pare.