La legge sulla spending review, vale a dire quella che prevede la rimodulazione della spesa, in funzione di una più moderna organizzazione dello Stato e la conseguente eliminazione delle sue ridondanze funzionali, nel 2012, l’anno in cui fu approvata, dopo un iter piuttosto travagliato e complesso, suscitò un notevole interesse e parecchio ottimismo, soprattutto negli occhiuti mercati finanziarti, sempre pronti a valutare verso quale direzione voglia andare l’Italia.
Da quel momento sono passati diversi anni, qualche passo avanti si è certamente compiuto, ma molto, purtroppo, può e deve ancora essere realizzato.
È stato ridotto il numero dei componenti di certi costosi consigli di amministrazione, è stata ridotta la composizione delle giunte degli enti locali, è stato accorpato qualche ente, sono state varate disposizioni che hanno meglio disciplinato l’uso delle cosiddette “auto blu”, è stato ridotto il numero dei parlamentari, ma i vuoti logici e strutturali non mancano.
Tuttavia, nonostante tutto questo, il debito pubblico cresce ogni anno di più, (ad agosto del 2023 la quota è salita a 2.843 miliardi di euro), ciò a prescindere dagli effetti dei provvedimenti riguardanti il Covid, la cui consistenza potrà essere efficacemente valutata soltanto alla definitiva conclusione del periodo della pandemia.
Un esempio più che palese dei tanti passi che devono essere ancora percorsi riguarda l’ossatura degli enti locali che conta ben 7.903 comuni, la cui ripartizione territoriale, per una volta, non vede in testa la Regione Siciliana, bensì il Piemonte che, a fronte di una popolazione pari a circa 4.311.000 abitanti, vale a dire circa 500.000 in meno della Sicilia, che ne conta 4.875.000, vede presenti 1.181 comuni, cioè esattamente il triplo di quelli dell’Isola, dove ne sono presenti appena 390.
Si tratta di una palese sperequazione strutturale che ha, certamente, ragioni storiche e geografiche, ma che non ha nessuna motivazione realisticamente compatibile con le esigenze di spesa di un Paese come il nostro.
L’Italia non può permettersi il lusso che in una regione come la Valle D’Aosta, in cui vivono 125.000 abitanti, pur tenendo conto della particolare morfologia del territorio, vi siano ben 74 comuni, mentre nella provincia di Enna, che conta 165.000 abitanti, i comuni siano appena 20, cioè meno di un terzo!
La situazione non è diversa se il paragone lo si fa tra la Lombardia, 10.028.000 abitanti e 1.506 comuni, e la Puglia, 3.953.000 abitanti e 257 comuni, o tra la Liguria, 1.525.000 abitanti e 234 comuni e la Campania, 5.712.000 abitanti e 550 comuni.
È ovvio che la responsabilità di una siffatta frammentazione amministrativa e geografica non la si possa di certo addebitare ai governi post-unitari, dato che le ragioni vanno ricercate altrove, in epoche differenti e talvolta sono comprensibili, ma non immutabili, almeno per gli aspetti della gestione di alcuni uffici.
Tuttavia è altrettanto ovvio che un Paese come il nostro, che pretende di migliorare il proprio assetto organizzativo, anche sfruttando le nuove tecnologie, e contenere la spesa, può pure individuare soluzioni differenti che contemperino le ragioni dell’identità territoriale con quelle dei costi della rappresentatività democratica.
Pensare alla centralizzazione di alcuni servizi (tecnici, anagrafici, di nettezza urbana, ecc.) non è del tutto impossibile, così come non è difficile ipotizzare uno snellimento degli organismi di rappresentanza.
In un comune di 30 abitanti come Monterone, in Piemonte, o di Pedesina, in Lombardia, ad esempio, a che serve un Consiglio Comunale di 10 componenti? E quanto costa l’apparato servente?
Insomma, di misure importanti ed efficaci bisognerebbe adottarne parecchie, alcune anche impopolari a cominciare dalla riforma della giustizia e della burocrazia, magari partendo dal principio di responsabilità, che sembra essere stato soppiantato da quello dello scaricabarile.
Cambiare è difficile, ma soccombere sotto il peso del debito pubblico, che cresce giorno dopo giorno, è peggio e questo aspetto, chi ha la responsabilità di reggere le sorti del governo, dovrebbe affrontarlo e valutarlo per come dovuto, magari evitando di stupirsi ogni volta che si è costretti di prendere atto che bisogna andare oltre le, pur apprezzabili, buone intenzioni.