Un giallo ambientato in una torbida Italia e ispirato ai fatti sui depistaggi di via d’Amelio. Questo il libro “Alibi” (edito dalla Dario Flaccovio editore) di Fabio Giallombardo presentato, nei giorni scorsi, a Termini Imerese.
Un’opera nata circa due anni e mezzo fa, attraverso un cammino introspettivo, dentro se stesso e dentro la storia italiana, sullo sconcerto dai fatti giudiziari legati alla strage del 19 luglio 1992.
Con l’autore hanno dialogato Francesca Caronna e Giorgio Lupo. Durante la serata, Mariagrazia Cannavò e Damiano Giunta hanno letto alcune pagine del libro.
Com’è nato il libro?
“Ho cercato di vedere le vicende legate alla morte di Paolo Borsellino attraverso le vite di quattro personaggi diversi tra loro, due maschi e due femmine, di due generazioni diverse, intrecciando la storia individuale della mia generazione, dei miei figli e dei miei alunni con la storia pubblica che ho vissuto dalle stragi in poi”.
Hai studiato il fenomeno mafioso anche sul piano antropologico. Qual è la differenza tra ieri e oggi?
“Innanzitutto è molto grande, perchè adesso si crede che il fenomeno mafioso sia più o meno scomparso, quindi sia quasi folklore. L’ho studiato in tutta la sua evoluzione dall’ottocento fino ad oggi. Non è un fenomeno eterno, è un fenomeno del mondo contemporaneo e ha una caratteristica su tutte, quella del camaleonte, per usare una metafora zoologica abbastanza fortunata anche nel mondo degli studiosi, cioè, si trasforma continuamente. Nel corso degli anni è diventato soprattutto finanza ed è un fenomeno ormai globale, diverso rispetto a quello degli anni settanta e ottanta, quando si occupava di specifici settori economici, come gli appalti del cemento, la droga, gli agrumi o le sigarette. È in continua evoluzione e adesso non è meno forte di prima, si è semplicemente trasformato. Oggi si basa sulla finanza e sulla politica”.
In Ulisse Marranzano quanto c’è di Fabio Giallombardo?
“Tutti i personaggi letterari conservano qualcosa dei loro autori se è vero che Flaubert dice che Madame Bovary è lui. Per diverse ragioni uno sarebbe portato a dubitare. Sicuramente ci sono molti riferimenti biografici abbastanza leggibili, per esempio, io abito nelle Marche come Ulisse Marranzano, insegno latino e greco al liceo classico come Marranzano. Ho messo qualcosa di me non solo in Marranzano ma in tutti e quattro i personaggi, soprattutto in quelli femminili”.
Nelle loro anime e nella coscienza collettiva nazionale il bianco e il nero, il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia si aggrovigliano in un nodo gordiano può sciogliersi solo attraverso un paziente tirocinio di coraggio e autenticità. Queste sono alcune parole inserite nella sinossi della tua opera. In cosa consiste il tirocinio?
“Questa è un po’ l’anima di quello che penso dell’Italia, un Paese in cui sempre bene e male sono aggrovigliati in modo quasi indistricabile. L’immagine del nodo gordiano è abbastanza esemplificativa. Il tirocinio è coscientizzazione, una parola che forse andava di moda negli anni settanta e ottanta, adesso meno. Piano piano bisogna capire questo groviglio da un punto di vista storico, personale e avere la pazienza di “spirugghiarlo” senza spezzarlo. Dopo la strage di via d’Amelio si sono succeduti quattro processi, ci sono tantissime teorie, spesso semplificate dalla televisione, e gli utenti non ci capiscono nulla. Poi arriva il momento in cui si getta la spunga e sono tutti colpevoli e tutti innocenti. Ho cercato di far capire nel libro che c’è una mano non solo mafiosa ma anche e, soprattutto, istituzionale che ha costruito questo depistaggio. Purtroppo non è avvenuto soltanto per il delitto Borsellino. Casi analoghi si possono fare per la strage di Portella della ginestra, sulla morte di Cosimo Cristina e Pippo Fava. Evento che visti da lontano sono un groviglio di cose incomprensibili, ma se uno li studia da vicino si accorge che, purtroppo, la mano che ha fatto il nodo c’è e il compito degli intellettuali e dei cittadini è quelo di sbrogliare questa matassa”.
“Sicuramente c’è qualcuno che ancora adesso cerca di tirare bene i fili. È la volontà di qualcuno, anche nelle istituzioni, non permette di arrivare fino alla verità dei fatti”. Sono le parole pronunciate qualche settimana fa da Antonio Vullo, unico agente di scorta sopravvissuto nella strage di Via D’Amelio. Come lo spiega ai suoi alunni?
“Ci sono dei fatti chiarissimi della storia italiana in cui delle mani invisibili, a volte quasi onnipotenti, hanno voluto costruire delle verità alternative e l’opinione pubblica ci è cascata. La caratteristica principale della mafia è quella di mescolarsi con le istituzioni, altrimenti sarebbe semplice gangsterismo. Se fosse così non sarebbe mafia. Ha questo terreno comune di tangenziale contatto con le istituzioni. Queste, naturalmente, cercano di coprire le malefatte perchè poi verrebbero coinvolte anche loro. Il reperimento della verità non è semplicemente un problema dello storico ma della nazione, della coscienza nazionale.
Ecco perché è importantissimo a scuola, non solo nell’ambito dell’educazione civica ma nell’ambito della formazione dei cittadini, scoprire queste verità e tirar fuori queste vicende storiche che, apparentemente, sono morte e sepolte. Non si tratta soltanto, come dice spesso Fiammetta Borsellino, di fare giustizia a una famiglia o a un gruppo di persone che hanno combattutto o, peggio ancora, pensare che sia una vicenda siciliana. Sono vicende nazionali e scoprendo le quali si possono superare certi gangli di questa nazione che si ripeteranno sempre, se non ci si mette mano in modo serio. Questo è il lavoro della scuola”.
Mario Catalano